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Opinioni

Skam Italia non è una serie teen

La chiamano teen drama, si cercano analogie con prodotti televisivi del passato, come i Ragazzi del muretto o lo storico Beverly Hills d’oltreoceano, ma in realtà Skam Italia non è solo e semplicemente una serie teen. Temi, linguaggi e realtà che appartengono a chiunque voglia aprirsi a un prodotto seriale che è partito da lontano e che ha tutti i requisiti per essere veicolato da un pubblico transgenerazionale.
A cura di Eleonora D'Amore
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Si scrive Skam, che in danese è vergogna ma non per la k. E parrebbe l'inizio di una serie scritta in un codice bimbominkia che gioca con le consonanti per pura economia linguistica, per lassismo giovanile, e invece è tutt'altro che una teen serie prodotta tanto al kg. Attivata con un passaparola in rete, deficitaria di una reale promozione per scelta, Skam parte del basso e sceglie il tam tam sui social come unico mezzo di propagazione, come accade con un audio o un video che in poche ore può diventare virale. Le singole mini clip, introdotte da data e orario sincronizzate al caricamento online, puntano a una dipendenza negli spettatori che generi una catena virtuale in cui a comandare restino loro. Lo fa con la forza delle tematiche, che vanno dalle crisi amorose a quelle esistenziali, da sofferti coming out a veri e propri black out tra sentimento e religione, declinate in modo che il fine resti didattico ma con un linguaggio universale. Grande la capacità del regista e sceneggiatore Ludovico Bassegato, volato in Norvegia per acquisire il vademecum vincente della formula nordica per poi farlo suo, ‘all'italiana', sconfinando presto oltreoceano, tanto da finire nella classifica di Buzzfeed delle 17 serie non in inglese che vale la pena vedere.

Un liceo di Trastevere accoglie le storie di due comitive di ragazzi e dirama in modo capillare, tra i corridoi, il susseguirsi di confessioni, rivelazioni, pettegolezzi e segreti che ne regolano le dinamiche relazionali. Ognuno di loro impersona un prototipo di teenager ben preciso, nel quale è facile immedesimarsi. Traghettatore delle loro coscienze è il professor Spera, psicologo della scuola, interpretato dal bravissimo Massimo Reale, confinato in un'aula dismessa com'è dismessa la fiducia che in generale si nutre nei confronti della sua professione.

Ogni stagione (ora siamo a Skam 4) si focalizza su membri particolari delle rispettive comitive: la prima su Eva e Giovanni, i classici innamorati irrisolti; la seconda su Martino e Niccolò, coppia di omosessuali alle prese con difficili prese di coscienza e un disturbo borderline che non facilita le cose; la terza su Eleonora ed Edoardo, che lei si ostina a chiamare Eduardo per dispetto, negando a lui e a se stessa i suoi reali sentimenti, che alla fine capitolano sulle note di Creep dei Radiohead. Le suona Creep perché se è vero che a quell'età è facile sentirsi sbagliati, scomodi, fastidiosi, diventa una costante nel tempo che si traduce in uno stato d'animo che abbraccia inevitabilmente un pubblico transgenerazionale. E forse lo sguardo che funge da chiave di lettura migliore è questo, quello che si sveste della convinzione che ci sia un'età per dire, fare o sentire in un certo modo e sposi l'idea più ampia dell'essere ancora oggi persi in lunghi corridoi, seppur diversi da quelli di una scuola.

E la musica la fa spesso da padrona, correndo su un filo capace di collegare nomi come Nick Cave, Cigarettes after sex, l'indie di Ghali, I Cani, Calcutta, il rap di Salmo e Fabri Fibra, le hit internazionali in quelli di Sia, Billie Eilish, Maroon Five, Lady Gaga, Coldplay, Ofenbach e Hozier, fino alla trap della Dark Polo che si scontra con la migliore tradizione italiana dei vari Cremonini, Nannini, Raf e Gino Paoli. Skam diventa così un piacere per gli occhi e per le orecchie, sfrutta e cavalca la tendenza ad unire l'aspetto sonoro a quello visivo, collocando il primo in una dimensione paritaria e compensatrice. Le canzoni parlano, raccontano, emozionano quando la sceneggiatura tace, sono il corollario di scene compiute ma non finite.

Come I ragazzi del muretto e Beverly Hills, anche Skam si avvale delle sue storie e dei vari intrecci per tentare il salto nella funzione educativa, per scrivere ogni volta un messaggio che resti, che non scompaia con una scrollata. Per farlo sceglie, inevitabilmente, anche la comunicazione grafica di emoticon e chat, la potenza delle note audio e dei pensieri sotterranei che accompagnano un post su Facebook o una story su Instagram. Il controllo delle loro emotività non avviene più solo attraverso l'interazione diretta, lasciandosi semplificare da quella in remoto: detective sui social altrui e abili fruitori di uno strumento che li aiuta ad attirare l'attenzione, su di sé o su ciò che provano. Una comunicazione più comoda, più liquida, meno esposta per certi versi, tutelata dallo schermo e dalla possibilità di bloccare persone e sentimenti all'occorrenza, eppure ricca di insidie, derivate soprattutto dalla menomazione dei fondamentali tra i cinque sensi.

Skam è la pluralità delle nostre emozioni che si prestano a età diverse e non mutano, restano cristallizzate nelle dinamiche esperienziali e cercano semplicemente di evolvere, di trovare una strada. Quella che porta i protagonisti verso il mare, che è un punto di passaggio tra il liceo e l'università (o altro), ma anche tra consapevolezze diverse, le stesse che ci aspettano ogni volta che prendiamo una nuova rincorsa con i piedi ancora asciutti e l'onda che ci sembra sempre più alta.

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“Una volta avevi scritto in un tema che siamo tutti convinti di andare verso il cielo e non ci accorgiamo che in mezzo c’è il soffitto. Però stavo pensando che se saltiamo tutti insieme, magari sto soffitto lo sfondiamo. Vuoi provare?”.

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Casertana di origine, napoletana di adozione. Laureata in Lingue e Letterature Straniere all'Università L'Orientale di Napoli, lavora a Fanpage.it dal 2010, anno in cui il giornale è nato. Caposervizio dell'area spettacolo.
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