C'è uno strano fenomeno che ogni anno di verifica a Temptation Island ed è quello legato alle carceri domestiche delle detenute sentimentali, ovvero donne incastrate in relazioni che diventano prigioni, che accettano di essere recluse in casa dai propri compagni spaventati dal fantasma di un tradimento. Peggio ancora, come nel caso di Valeria Liberati, quando un tradimento già c'è stato e la pena ha l'aggravante della recidiva. Donne rinchiuse in casa dai loro fidanzati, costrette a non uscire per non rischiare di inciampare nella loro natura fedifraga.
Donne accondiscendenti, che accettano di guardare dalla finestra le vite dei compagni per non essere travolte dal senso di colpa. Che non fumano in pubblico, non bevono, non ballano in modo audace, e poi alla prima ora d'aria si sentono in diritto di recuperare il tempo perduto. Detenute sentimentali, colpevoli di uccidere l'emancipazione femminile ogni volta che un uomo glielo chiede. Ma non a Temptation.
Nel campo del proibito, la detenuta sentimentale si sente autorizzata a trasgredire perché o ‘quando me ricapita‘ o per appagare un desiderio di riscatto coltivato meticolosamente sul divano a botta di screen su whatsapp e soap turche. È per questo che ogni volta un'emancipazione femminile, che porterebbe a pensare che ormai nel 2020 una donna possa senza dubbio decidere di ribellarsi al patriarcato molesto cacciando la chiave di riserva di fronte una porta chiusa a doppia mandata, si accovaccia nell'angolo e muore. Non ce la fa a sopravvivere alle stilettate del maschio predominante, che zittisce alla Magalli e punisce con la sua tracotanza, forte della sua compagna geisha, che ammicca ma non fiata.
La complicità nel reato di omicidio di un'emancipazione è tutta racchiusa in questo silenzio, nel modo in cui si recrimina all'altro lo stato di ‘prigionia', nell'incapacità di una vera ribellione. E in un perverso gioco al contrario, quando si è arrivate a sfiorare l'ormai temuto tradimento e lo si motiva con lo sfogo a questa precisa repressione emotiva, è proprio lì che si consuma l'ultimo atto, nel non rendersi nemmeno responsabili delle proprie pulsioni che, ancora una volta, sono solo la più becera conseguenza degli atteggiamenti dell'altro.
I love the way you die.