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Umberto Ambrosoli: “Mio padre era una persona normale, non un eroe”

Parla il figlio di Giorgio Ambrosoli, ucciso per aver fatto il suo dovere. Dopo il successo della fiction “Qualunque cosa succeda” con Pierfrancesco Favino, intervistato da Fanpage, Umberto Ambrosoli si dice felice e soddisfatto “per aver fatto incontrare tanti italiani intorno all’esempio di mio padre”.
A cura di Andrea Parrella
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Qualunque cosa succeda è la fiction andata in onda su Rai1, l'1 e il 2 dicembre, incentrata sulla narrazione degli ultimi anni di vita di Giorgio Ambrosoli, l'avvocato incaricato dalla Banca d'Italia alla liquidazione del principale istituto di credito di proprietà dell'affarista Michele Sindona.Un ruolo che gli costò pressioni, intimidazioni e infine la morte ad Ambrosoli, in virtù dell'intransigenza, il rigore e l'onestà con la quale svolse il proprio lavoro. La fiction, interpretata da Pierfrancesco Favino, Anita Caprioli, è tratta dal libro omonimo scritto da Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio, nel quale si tenta di narrare la storia da un punto di vista più intimo e privato. Contattato telefonicamente da Fanpage, Umberto Ambrosoli mostra tutta la gioia e la soddisfazione per i quasi 5 milioni di telespettatori che hanno seguito la fiction televisiva:

E' una sensazione di soddisfazione, quella di sapere che l'impegno di tante persone negli ultimi due anni ha portato alla possibilità per un così alto numero di cittadini italiani di incontrarsi intorno all'esempio di mio padre.

Aveva pensato che la fiction potesse avere un valore divulgativo e non solo celebrativo? Paradossalmente molte persone non conoscevano a fondo la vicenda di Giorgio Ambrosoli..

E' un dato naturale che non sia conosciuta da tante persone, per una ragione semplicissima di carattere anagrafico. Ci sono tantissime persone che sono nate non solo nell'epoca in cui quei fatti erano stati abbondantemente dimenticati, o comunque lontani dalla cronaca quotidiana, ma soprattutto che non hanno neanche gli strumenti per comprendere la complessità di quei fatti. Un esempio: dire ad una persona che ha più di 30 anni il nome di Andreotti, evoca una complessità, la complessità della vita di quella persona, talmente piena e caratterizzata da decine di migliaia di aspetti. Dirlo ad un ragazzo di 15, 18 o 20 anni, è dire un nome come un altro. Sì, forse è evocativo del potere nella misura delle ipotesi, ma non evoca la stessa complessità. Allora quando abbiamo pensato alla fiction abbiamo immaginato un prodotto che fosse usufruibile anche da chi non ha la possibilità, né la volontà forse, di un approfondimento di tutto quello che vuol dire l'Italia di quegli anni. Devo dire che mi è risultato abbastanza facile immaginarla da questo punto di vista, perché così avevo immaginato il mio libro, che si rivolge principalmente ai miei figli, i quali per ragioni sacrosante non hanno gli strumenti per conoscerla come vissuto. Quindi l'idea era propriamente quella divulgativa. Anzi avevo paura della dimensione celebrativa, che è poi inevitabile quando si parla di persone che sono state capaci di vite così esemplari.

Giorgio Ambrosoli è l'emblema dell'eroe borghese, ma lei ha sempre tentato di spogliare suo padre da quel velo di eroismo, perché passasse come una persona che abbia semplicemente fatto il suo dovere.

Io ci tengo molto a rappresentare la normalità di mio padre, per una ragione semplicissima: gli eroi noi tendiamo ad identificarli come dei soggetti con i quali il paragone è impossibile, quasi non richiesto. L'eroe è per definizione mitologica qualcuno che ha qualcosa in più degli umani ed anche oggi quando parliamo degli eroi contemporanei, evitiamo il confronto con loro, definendoli in questo modo. E' come se la possibilità di assumere le stesse scelte sia da delegare a qualcuno che ha qualcosa in più. L'esempio di mio padre è quello di una persona normalissima, con la sua famiglia, i suoi dubbi e le sue preoccupazioni. Questo è lo sforzo che abbiamo fatto col libro e con la fiction e come facemmo col film "Un eroe borghese" appunto.

A distanza di tanti anni crede che l'Italia abbia ancora la propensione culturale a cercare degli eroi, o crede che qualcosa sia cambiato?

Sì, abbiamo ancora la tendenza a delegare ad altri il far fronte a situazioni particolarmente complesse e, da questo punto di vista, dobbiamo fare dei passi avanti, che è possibile fare. Tanti ne sono stati fatti, ma spesso ci facciamo prendere dallo sconforto, dall'idea che nulla possa cambiare. Ed è proprio in questo sconforto che, paradossalmente, deleghiamo ancora di più.

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