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Opinioni

Monologhi soltanto monologhi, la Tv non riesce più a liberarsene

Elodie e Rula Jebreal a Sanremo, Fedez al Primo Maggio, Madame a Le Iene. Da tempo la televisione sembra schiava di questo strumento, monologhi empatici, accorati ed appassionati e in cerca di viralità. Se spesso si rivelano utili a dare voce a temi e minoranze inascoltate, rischiano al contempo di diventare la forma espressiva più conformista di questo tempo.
A cura di Andrea Parrella
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Elodie a Sanremo, Fedez al Primo Maggio e Rula Jebreal al festival
Elodie a Sanremo, Fedez al Primo Maggio e Rula Jebreal al festival

Se c’è una costante nella televisione di questi ultimi anni, è il ricorrere insistente alla forma del monologo. Da Sanremo ai talk show politici, fino al caso recente de Le Iene, è sempre più massiccio l’uso di questo strumento nelle trasmissioni Tv. La parola stessa, monologo, tradizionalmente accostata al contesto teatrale e alla recitazione, ha assunto negli ultimi anni una forte connotazione televisiva.

La tendenza è talmente forte che nelle ultime stagioni un programma televisivo, Italia Sì, è nato proprio proprio dall’idea di mettere al centro del format un piccolo palco disponibile per chiunque abbia qualcosa da dire, un appello da fare, un monologo da recitare.

Elodie a Sanremo, Rula Jebrealsul palco del Festival, il caso Fedez al concerto del Primo Maggio o quello di Madame a Le Iene. La declamazione enfatica di un concetto è diventata il più abusato stratagemma televisivo anche per ragioni di mera praticità, visto che in questo modo un programma Tv si fa megafono senza esigenze di scrittura, dà voce senza sforzo, può in un certo senso prendere le distanze dal contenuto. Inoltre si presta perfettamente alla distribuzione sui social in un’era che privilegia la frammentazione alla continuità narrativa, in cui i programmi per intero li guardano in pochi e molti di quei pochi si sono addormentati. Così due minuti di monologo finiscono per avere ottime possibilità di trasformarsi nel video virale del giorno e, di conseguenza, rappresentare un’occasione di risalto per il programma stesso.

Tra i vari perché del successo del monologo c’è anche una motivazione che ha a che fare con il tempo storico in cui viviamo. Si tratta infatti della manifestazione umana che meglio incarna il concetto di coraggio nel nostro modo di intenderlo. Fare un monologo significa, il più delle volte, parlare fuori dal coro, dare voce a una minoranza, risalto a una storia inascoltata, proiettare un occhio di bue su temi e concetti che si ritiene meritino una certa rilevanza. Il contenuto del monologo non è mai “normale”, non può parlare di un tema come un altro, deve essere sfogo di un disagio, deve essere liberatorio. Se particolarmente efficace e fortunato il monologo diventa trend, alimenta dibattito e, perché no, viene intercettato da un politico che lo porta in parlamento.

Come sempre, però, l'abbondanza ha le sue controindicazioni. Il proliferare di certi discorsi catartici, appassionati ed esaltati, ha finito per addomesticare il pubblico, alzando l’asticella delle aspettative. In questo modo il monologo accorato, che nasce come una rottura nella continuità narrativa di un programma, diventa la forma espressiva più conformista di questo tempo.

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"L'avvenire è dei curiosi di professione", recitava la frase di un vecchio film che provo a ricordare ogni giorno. Scrivo di intrattenimento e televisione dal 2012, coltivando la speranza di riuscire a raccontare ciò che vediamo attraverso uno schermo, di qualunque dimensione sia. Renzo Arbore è il mio profeta.
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