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La rivoluzione a metà di Alessandro Cattelan

È partito Da Grande, lo show del conduttore atteso su Rai1 come un messia. Il risultato è un programma a tratti eccellente e a tratti zoppicante, che commette l’errore di provare a tenere insieme due mondi (due pubblici) che non comunicano tra loro. A Cattelan serve l’audacia di capire che è stato chiamato in Rai per evitare le mezze misure.
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A cura di Andrea Parrella
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L'errore più grande è stato tardare per anni questo momento. L'arrivo messianico di Alessandro Cattelan in Rai ha generato aspettative eccessive che nessuno, diciamoci la verità, nemmeno il conduttore/show man con le spalle più larghe, avrebbe potuto reggere.

Da Grande non è stato la rivoluzione tanto invocata, sia perché in televisione c'è ancora poco da rivoluzionare, e soprattutto perché quando ti consigliano un film con troppa foga, vendendotelo come capolavoro, in sala si rivela il più delle volte una delusione.

Messa da parte questa premessa, che ha spaccato in due posizioni aprioristiche e pervenute il dibattito sin dalla vigilia della messa in onda, si può parlare serenamente del programma partito su Rai1 il 19 settembre.

Da Grande ha i tratti dello show tradizionale, una struttura in blocchi destinati ai singoli ospiti, posizionati in modo tale da trainare il grande pubblico della prima rete.

La cosa che affatica di più Alessandro Cattelan, si vede subito, è la gestione dei tempi della Tv tradizionale. Lunghissimo e nemmeno troppo originale il numero di apertura con Il Volo (mossa ad effetto garanzia per trattenere le zie anziane), sforato quello con Bonolis, dove il conduttore è costretto alla situazione imbarazzante di dover mettere fine in anticipo al numero, salutando l'ospite in modo sbrigativo prima della pausa pubblicitaria tassativa e tentando maldestramente di giustificarsi con l'ironia sui tempi della Tv tradizionale (che è fatta così perché così genera profitti).

Al contrario, funzionano sempre i numeri in cui Cattelan rompe le barriere della televisione, né valica i confini sia in senso fisico (la scuola guida di Elodie) sia virtualmente (la gag con Argentiero su De Martino chiamato a bloccare le rispettive mogli sui social e l'esibizione finale di Blanco, mandata in diretta su Instagram in contemporanea). Non è casuale, la percezione chiara è che Cattelan sia a suo agio quando porta convintamente il suo mondo su Rai1, molto meno quando scimmiotta e prende in giro la televisione tradizionale. Un errore che lascia intravedere una leggera spocchia e la volontà di alimentare un'idea di salvacondotto che lo esenti dallo sporcarsi con la Tv generalista brutta e cattiva.

Sono due mondi che non possono – e non devono – stare insieme. Alessandro Cattelan è la cultura del meme fatta persona. Quando incontra Antonella Clerici, amata dal grande pubblico per le torte cucinate a mezzogiorno, interagisce con lei citando un video de La Prova del Cuoco divenuto un cult per la generazione che usa abitualmente Youtube, ma la storia della borra è ignota a chi ha guardato e guarda ogni giorno La Prova del Cuoco ed È sempre mezzogiorno.

Il rischio è che Da Grande si incarti nel tentativo remoto di unire due universi incompatibili, operazione in cui nemmeno una divinità televisiva come Fiorello, con Viva RaiPlay, è riuscito. L'acqua e l'olio non si mischiano, per quanto si voglia mescolare con forza è solo apparenza di pochi istanti, il moto vorticoso finisce e le due sostanze tornano a scindersi, come il pubblico che guarda Tale e Quale Show e quello che ha guardato Epcc. Di cui Cattelan non deve mai dimenticarsi, perché è quello che la Rai gli chiede: agevolare la migrazione del suo pubblico, allergico alla fruizione lineare della Tv, verso una pratica di frequentazione del mezzo desueta, anacronistica, fuori dal tempo. È chiamato, in sostanza, ad aprire un varco che risulti accattivante per quelle persone che la televisione non la guardano, o la preferiscono in frammenti, vista da altri schermi. Le speranze che questo riesca, nel modo in cui lo intendono le metriche della Tv ovvero quello degli ascolti, sono quasi nulle, ma la televisione deve provarci per garantirsi una possibilità di sopravvivenza. Perché tocca ricordarlo, piaccia o no il suo approccio "fighetto", le speranze di vita della televisione non sono strettamente legate a Alessandro Cattelan, ma a quel pubblico con cui (quasi) solo lui, oggi, sembra in grado di riuscire a parlare. Lui, prima di tutti, deve capirlo per conservare l'audacia utile ad evitare le mezze misure.

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"L'avvenire è dei curiosi di professione", recitava la frase di un vecchio film che provo a ricordare ogni giorno. Scrivo di intrattenimento e televisione dal 2012, coltivando la speranza di riuscire a raccontare la realtà che vediamo attraverso uno schermo, di qualunque dimensione sia. Renzo Arbore è il mio profeta.
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