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Zerocalcare a Fanpage.it: “La sensibilità è un accollo, lontano dal divano è tutto orribile”

Zerocalcare è pronto a tornare e lo farà in piattaforma con la serie Strappare lungo i bordi, disponibile su Netflix da mercoledì 17 novembre. Fanpage.it lo ha raggiunto per un commento a caldo prima dell’uscita: “La sensibilità è un accollo ed è quella che ti rende l’ultimo anello della catena alimentare. Lontano dal divano, dove mangio, lavoro e guardo la tv, c’è l’orrore”. E sulla sua seguitissima, seppur riservata, vita social: “Condivido poco di me, perché nella vita preferisco sembrare un deficiente più che un mitomane”.
A cura di Eleonora D'Amore
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Zerocalcare sta tornando. Dopo l'enorme successo di Rebibbia Quarantine, presentata durante i duri mesi di lockdown nello studio di Propaganda Live su La7, Michele Rech è pronto per conquistare le piattaforme: in arrivo Strappare lungo i bordi, da lui scritta e diretta, disponibile da mercoledì 17 novembre su Netflix. Fanpage.it lo ha raggiunto alla Festa del cinema di Roma per parlare di questo lungo viaggio in treno con Sarah e Secco, gli amici di sempre, verso qualcosa di molto difficile da fare. Al suo fianco, la solita coscienza ingombrante, quella dell'Armadillo, che ha la voce di Valerio Mastandrea. Previste per questa prima stagione sei puntate in tutto, delle quale le prime due, viste in anteprima al Festival, preannunciano l'ennesimo successo del noto fumettista romano.

“Strappare lungo i bordi” è la tua prima serie tv, in uscita il 18 Novembre su Netflix. Perché hai scelto questo titolo?

È un po’ arzigogolato, lo so. L’idea che ho avuto spesso nella vita è che le nostre vite in qualche modo devono seguire un tratteggio da strappare, però ogni tanto uno lo strappa male e, quando accade, le vite possono prendere direzioni diverse da quello che uno si aspettava.

Nella serie hai doppiato tutti i personaggi, escluso l’Armadillo. La voce della tua coscienza è davvero quella di Valerio Mastandrea? 

In parte sì, nel senso che molto prima di pensare di fargli doppiare l’Armadillo nella mia vita Valerio Mastandrea ha avuto spesso quel ruolo. Quando bisognava fare un nome per il doppiaggio, è venuto naturale chiedere a lui. Pure perché è passato prima di me attraverso tutta una serie di esperienze e probabilmente ha capito per tempo un sacco di cose che io sto vivendo adesso, perché abbiamo una matrice comune, un certo modo di sentire che ci unisce.

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Qual è questa matrice in comune?

Beh, se uno guarda Mastandrea all’inizio, ci riconosce una serie di disagi e di impicci rispetto al ruolo che occupava in quel momento. Che sono gli stessi che sto provando io adesso nel ruolo di intervistato (sorride, ndr).

Ironia e cinismo mascherano spesso una profonda sensibilità. Questa tua sensibilità è un “accollo”? 

Assolutamente sì ed è quella che ti rende l’ultimo anello della catena alimentare, anche giustamente. In una città come Roma per forza uno impara a far ridere le persone e a prendere in giro se stesso per cercare di creare uno scudo intorno a quella vulnerabilità, nel senso che se tu ti prendi in giro in qualche modo impedisci agli altri di farlo. Tutta la mia vita e la mia produzione sono un continuo mettere le mani avanti.

Nella serie scopriamo anche il tuo passato da bambino, un Michele incompreso ed empatico che si scontra con la superficialità del mondo che lo circonda. Crescendo hai perso quel disincanto? 

No, non l’ho perso, anche perché secondo me queste sono cose che uno si porta dietro fino alla morte. Aspetti transnazionali, che vanno al di là della questione anagrafica, cioè se quella cosa la senti ce l’hai da ragazzino, in Italia o in Giappone, da vecchio, sempre. Te la porti dentro, poi sicuramente ci sono dei modi per tamponarla e imparare a conviverci, però è qualcosa che ti resta e che riconosci negli altri.

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Puntualmente, nei tuoi lavori, il disagio lascia il passo alla speranza, come in Rebibbia Quarantine. Sei riuscito ad interpretare il mix esplosivo di disperazione e sarcasmo che ha attraversato gli italiani durante il lockdown. Ti è arrivata la loro gratitudine?

L’ho sentita un sacco perché mi è stata trasferita tante volte, nel senso che tante persone mi hanno detto: “Ti ringrazio perché ci hai fatto fare un sorriso”. L’ho fatta perché a me serviva in qualche modo esorcizzare quella roba che stavo vivendo e occupare il tempo, stando chiuso dentro casa. È anche vero che in quel momento vivevamo tutti la stessa condizione, era molto facile entrare in sintonia con il sentire collettivo. Adesso invece è proprio un altro momento, è tutto iper frastagliato, iper diviso, è molto più difficile ritrovare quella sintonia con gli altri.

Nelle tue opere emergono due registri linguistici: l’italiano e il romanesco. Il dialetto è un espediente per enfatizzare le emozioni e renderle più libere?

Le persone che ammiro di più e che mi fanno più ridere al mondo sono le persone che riescono a switchare su registri linguistici diversi, a passare da uno molto aulico a uno molto basso, dialettale. Sono le persone che rispetto di più al mondo. Per me, paradossalmente, il romano è la lingua della comfort zone: io parlo più romano nelle interviste che con mia madre, non perché lo devo ostentare ma perché è la mia questione identitaria, che mi fa sentire trincerato nel mio fortino.

Questione di contrasti e di sicurezze?

Sì, questa cosa di dividere i registri per me è sempre funzionale a raccontare i contrasti: un piano più astratto, quello in cui si fanno discorsi più ampi e di respiro, contrapposto al piano dell’intimo, in cui mi piace che il linguaggio sia più diretto, più aderente a quello che usiamo veramente. Tra l’altro, il dialetto non si usa mai nei cartoni animati, nei quali magari, nel caso dei cartoni per adulti, ci può stare la parolaccia. Mi piaceva tanto il fatto di mettercelo dentro.

Ritorna prepotente il divano, il luogo dove prendono vita tutte le tue riflessioni e le tue opere. Lontano da lì cosa succede?

L’orrore lontano dal divano. Io mangio, lavoro, guardo la tv sul divano, in realtà io faccio tutto sul divano quindi ogni volta che devo andare via evidentemente è per qualcosa di ostile.

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Sei, tuo malgrado, una star dei social. La tua natura riservata e restia a qualsiasi forma di divismo ha comunque un grande seguito. Come vivi questo ennesimo contrasto?

Quando le mie pagine hanno iniziato a crescere in numero di fan mi sono fatto molti più problemi. Penso cento volte prima di scrivere una cosa perché so che dovrò poi risponderne davanti a un sacco di persone, quindi sto un po’ più guardingo su alcuni argomenti. In generale, mi sono imposto di tenere sempre un registro mio, di non trattare le persone come se fossero consumatori.

È pur vero che condividi molto poco di te.

Io non ho mai postato una foto mia perché non mi piace usare i social in quel modo là, quindi mi rendo conto che ci sono pure tante cose maldestre nell’uso che ne faccio. È un po’ lo stesso principio dei fumetti, spero che se tu cerchi di essere meno artificiale e più diretto possibile, questa cosa ti viene riconosciuta. Magari poi qualcuno pensa “Guarda questo, è un deficiente” però non pensa che sono un mitomane. Ecco, nella vita preferisco sembrare più un deficiente che un mitomane.

In conclusione, perché guardare Strappare lungo i bordi, in uscita il 17 novembre su Netflix?

Perché non dura tantissimo (ride, ndr)

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