"La Casa di Carta è una serie trash e sopravvalutata". Il mantra degli hater della serie dei rapinatori con le maschere di Salvador Dalì è sempre lo stesso. Con la quarta stagione finalmente disponibile su Netflix, sono tornati i fini critici a dirci che "nossignore, La Casa di Carta è una cagata pazzesca". Il che può essere anche vero, come il suo opposto fino a prova contraria. Non è ben chiaro quale sia il manuale di scrittura dove c'è scritto che per una serie di successo, sia indispensabile rispondere a determinati fini canoni stilistici e di regia.
La Casa di Carta è la rivalsa sociale dei semplici
"La Casa di Carta" è una storia di successo perché ci mostra una forma semplice, eterna e universale: la rivalsa sociale degli ultimi e dei semplici. Lo fa mettendo al centro una storia attraente e con gli archetipi giusti. Sin dalla prima stagione, il trucco era ben chiaro: l'uso sapiente dei cliffhanger. I finali sospesi, esasperati all'eccesso in questa quarta stagione anche tra un blocco e l'altro, fanno in modo che lo spettatore resti incollato a seguire la storia di ogni personaggio. Di certo, il suo creatore Álex Pina non ha reinventato un genere. Ma ne ha fatto qualcosa – soprattutto Netflix ne ha fatto qualcosa – di estremamente unico grazie al passaparola di gradimento generatosi alla fine della prima stagione. E grazie a un paio di mosse fondamentali.
È stato l'intervento di Netflix a rendere "La Casa di Carta" il fenomeno globale che è oggi. È stata presa l'unica stagione andata in onda in Spagna, con poche fortune, è stata divisa in due parti e si è sperato che lo spettatore abboccasse all'amo. Bingo: è successo. Con un cambio di strategia complessiva, riducendo la durata di ogni singolo episodio e portandolo dagli oltre 60 minuti a un formato di 45-50, la serie è arrivata a realizzare numeri da capogiro diventando – insieme a prodotti come "Stranger Things" – un vero e proprio passepartout.
La furbizia "italiana"
Strategia, visione e fortuna. Tre punti chiave. Il quarto punto è la furbizia. Quella di saper ascoltare il proprio pubblico di riferimento. Con "Bella Ciao", la canzone simbolo della banda cantata dal Professore (Álvaro Morte) e Berlino (Pedro Alonso), la serie ha fatto breccia nei cuori dei telespettatori italiani, più che in ogni altro posto del mondo. Non è un caso quindi il fan-service purissimo (altra brutta, bruttissima parola nel mondo dei critici bacchettoni) nel primo e nel secondo episodio della quarta stagione, con le canzoni italiane "Ti Amo" di Umberto Tozzi e "Centro di gravità permanente" cantate rispettivamente da Berlino e da Palermo (Rodrigo de la Serna).
A parere di chi scrive, "La Casa di Carta" non ha mai avuto pretese di aderire alla realtà e la scrittura – inverosimile, sì – continua a girare intorno a se stessa. Eppure le ore scorrono e non se ne fa caso. Poi, possiamo prendere in prestito le parole del protagonista Álvaro Morte che proprio a Fanpage.it ha parlato della funzione importante che ha la serie in questo momento storico durissimo: "Siamo una piccola ventata d'aria fresca per quelle persone che stanno vivendo momenti difficili, così come di poterle aiutare a casa loro".
Il nutrito gruppo di hater però risuona in maniera ripetitiva e incessante: "La Casa di Carta è inguardabile". E non la guardate! Pensare che gli sarebbe potuta andare peggio. Potevano rilasciare insieme alla quarta, anche una quinta stagione. O anche tutti gli spin-off che, oh sì, potete giurarci: ci saranno.