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Opinioni

Non staremo prendendo troppo sul serio Temptation Island?

Se da una parte è irrinunciabile trattare Temptation Island come un fenomeno degno di speculazioni intellettuali e analisi comportamentali, tutto ciò che accade nel programma è costretto da una condizione di cattività, dall’osservazione delle telecamere e, soprattutto, dalla necessità che qualcosa accada, possibilmente sopra le righe. Non dovremmo mai dimenticarcene.
A cura di Andrea Parrella
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È finita un'altra edizione di Temptation Island, il "viaggio nei sentimenti" che da anni maramaldeggia incontrastato nelle nostre estati televisive, imponendosi come uno dei programmi più visti della stagione. Come ogni anno, ormai, il reality show condotto da Filippo Bisciglia, si dimostra in grado di valicare i confini della propria bolla di pubblico, invadendo territori inesplorati e costringendo i commentatori a uno sforzo di comprensione maggiore del fenomeno, che essendo in espansione spinge all'imperativo categorico di ulteriori livelli analitici.

Quando un argomento entra nei bar o nelle piazze, che nella loro traduzione contemporanea sono i social network, diventa subitaneamente oggetto di speculazioni intellettuali che provino a spiegare la pervasività del tema. Se se ne parla, una ragione deve certamente esserci. E così da anni critici, non solo televisivi, si affannano a setacciare ogni meandro di un format vecchio di 15 anni per trovarci dentro il famoso racconto del reale, lo specchio della società che si va ricercando in ogni accadimento che riesca nell'impresa di innalzarsi a fenomeno culturale.

Temptation Island, da esperimento televisivo tutto sommato leggero sulla fedeltà di coppia, si trasforma in materiale per esercizi di trattatistica sulla condizione della donna nelle relazioni, sui comportamenti retrivi o passivi dell'uomo nei rapporti, sulle questioni di genere e di ruolo, ammantando il programma televisivo di una seriosità analitica stemperatasolo dal vero motore del successo di Temptation Island che è la cultizzazione del trash, cioè quella dinamica che bonifica certi prodotti televisivi (ma anche musicali, seriali etc.) dotati di un presunto bollino di scarsa qualità, autorizzandoci a parlarne senza l'imbarazzo di una volta.

Se da una parte è irrinunciabile trattare Temptation Island come un fenomeno culturale, non può che apparire eccessivo il processo di intelettualizzazione del programma, la volontà di vedere in esso le coordinate per descrivere una geometria delle relazioni e dei comportamenti umani. Il rischio è che certe situazioni si impongano nell'immaginario pubblico al punto che le persone pensano sia quello il modo di comportarsi. Ma per quanto il canovaccio dell'amore abbia una storia millenaria e si ripeta spesso sempre uguale, tutto ciò che accade a Temptation Island è costretto da una situazione di cattività, dall'osservazione delle telecamere e, soprattutto, dalla necessità che qualcosa accada, possibilmente sopra le righe. Non dovremmo mai dimenticarcene.

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"L'avvenire è dei curiosi di professione", recitava la frase di un vecchio film che provo a ricordare ogni giorno. Scrivo di intrattenimento e televisione dal 2012, coltivando la speranza di riuscire a raccontare ciò che vediamo attraverso uno schermo, di qualunque dimensione sia. Renzo Arbore è il mio profeta.
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