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Opinioni

Maria De Filippi ha avuto paura della mafia, l’omertà non c’entra niente

“Fossi stata in Maurizio, dopo l’attentato non avrei mai più parlato di mafia”. Parte dell’opinione pubblica ha letto le parole della De Filippi a “Che tempo che fa” come un devastante messaggio diseducativo, ai limiti con l’istigazione all’omertà. Ma contestare gli effetti della paura su una persona che è stata sfiorata dalla morte equivale, in qualche modo, a lasciarla sola.
A cura di Andrea Parrella
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"Io fossi stata in Maurizio non avrei mai più parlato di mafia. Io avrei chiuso lì. Molto probabilmente chi fa il giornalista ha questa spinta. Io no". Nulla di quanto Maria De Filippi pronunci pubblicamente passa inosservato, figurarsi questo commento in merito ad una delle vicende più sconvolgenti della sua vita: l'attentato mafioso di via Fauro del 25 maggio 1993 dal quale lei e Costanzo riuscirono a scampare grazie ad un fortuito imprevisto.

Le parole di Maria De Filippi a Che Tempo Che Fa non sono il frutto di una sua opinione, né di una presa di posizione. Traducono la reazione inconscia ad un trauma, sarebbe bene rimarcarlo. Ha confessato pubblicamente una sua paura, esponendosi al legittimo giudizio di alcuni che hanno guardato alla possibile ricaduta diseducativa delle cose che ha detto, facilmente fraintendibili e soggette a stravolgimento, interpretabili come un messaggio devastante, una specie di atto omertoso, un invito a non occuparsi di mafia se si subiscono intimidazioni e a voltare la faccia. In punta di piedi ci si permette di dire che la cosa appare leggermente più complessa di così.

Si dirà che sono tanti i parenti delle vittime innocenti di mafia che hanno trasformato la loro vita in una missione, facendosi testimoni del dramma e del dolore inconsolabile che certe bestialità siano in grado di produrre. Ma quanto ha detto la De Filippi non è in contrasto alle storie di queste persone, non le viola. Né manca di rispetto verso chi si impegna in prima persona, denunciando e raccontando gli ambienti mafiosi, dotato di quella spinta che lei ha riconosciuto di non avere. Di chi perde perde la propria libertà, limitata da una scorta.

La voglia di verità, la rabbia, la necessità di chi ha subito un lutto a darsi una spiegazione, trovare i colpevoli e avere giustizia, non vanno paragonati al timore di una presenza ignota che vuole farti del male. Non c'è una scala di valori, nessuna di queste due circostanze è preferibile all'altra: sono circostanze, appunto, circostanze differenti. Maria De Filippi ha sfiorato la morte, l'ha vista passare al suo fianco e non si è trattato di una caldaia accidentalmente saltata in aria, come lei stessa ha raccontato di aver pensato in un primo istante, dopo l'attentato. Convivere con la sensazione di pericolo che qualcuno possa essere ancora interessato a procurarti la morte, dopo averci già provato, è ben diverso dal temere che possa essere un incidente domestico a farlo.

In un contesto gelato dal terrore che qualcuno possa fare del male a te e alla tua famiglia, matura la richiesta di una moglie verso un marito a non trattare più l'argomento di mafia. Condannarla per questo, oppure comprendere lo stato d'animo di quegli anni, è una scelta di sensibilità che non ha niente a che fare con la propria posizione sul tema dell'antimafia.

Tra paura e omertà è in atto un corteggiamento non corrisposto, si somigliano tremendamente e tra loro c'è una qualche sorta di continuità, la seconda si può immaginare come uno stadio degenerativo della prima. Ma nessuno, anche se si chiama Maria De Filippi, andrebbe lasciato solo nella paura, o condannato per averla mostrata. Perché a quel punto è breve il passo verso l'omertà.

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"L'avvenire è dei curiosi di professione", recitava la frase di un vecchio film che provo a ricordare ogni giorno. Scrivo di intrattenimento e televisione dal 2012, coltivando la speranza di riuscire a raccontare la realtà che vediamo attraverso uno schermo, di qualunque dimensione sia. Renzo Arbore è il mio profeta.
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