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Luca Raina: “Il Collegio non è un talent, allievi scelti per chi sono e non per cosa sanno fare”

Il professore de Il Collegio 6 racconta a Fanpage.it l’esperienza di questa nuova edizione ambientata nel 1977, di come il programma abbia inciso sulla sua vita quotidiana e cosa renda speciale questo format. Tra gli aspetti interessanti emersi quest’anno, quello dell’identità di genere: “Se una persona non vuole definirsi ragazzo o ragazza il problema non è grammaticale, ma filosofico e identitario”.
A cura di Andrea Parrella
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Il Collegio è tornato con la sua sesta edizione, senza deludere le aspettative. Nonostante il passare delle stagioni e le dinamiche apparentemente affette da ricorsività, anche quest'anno il docu-reality di Rai2 si conferma un fenomeno televisivo di raro interesse. Elementi portanti del programma sono senza dubbio i docenti, tra questi il prof. Luca Raina, volto ormai storico del programma, insegnante di storia in questo 1977, anno di ambientazione del programma.

Professore, siamo alla sesta edizione del Collegio, c'è sempre lo stesso entusiasmo o la ripetitività ha qualche effetto?

L'addomesticamento è fisiologico, ma penso siano molto bravi gli autori nel creare una macro struttura che presenta sempre qualcosa di vario. Una specie di grande macchina teatrale in cui esiste un canovaccio che si rinnova, che deve raccontare qualcosa di nuovo, con degli attori che improvvisano e non sai cosa debbano vivere. Tra le novità di quest'anno c'è anche un'apertura all'esterno che l'anno scorso, per ragioni Covid, non c'è stata. Ci sarà molta più aria all'orizzonte e questa è già una cosa nuova.

Al netto dei problemi di memoria storica, come si approcciano i giovani alla storia come materia. 

Le narrazioni in genere non solo affascinano, ma sono il nostro pane. Noi siamo fatti di gossip, ci piacciono le storie, ci piace ciò che succede. La storia non è altro che il racconto ragionato e ordinato delle singole storie, compreso il gossip. È ovvio che tutto dipende da come la si racconti, è noiosa nel momento in cui la si racconta in modo noioso.

Quindi la storia è pettegolezzo?

Chiaro che no, la banalizzazione è sempre dietro l'angolo e bisogna stare nel mezzo. Ma noi siamo interessati a livello antropologico al pettegolezzo, che è in sé una storia. Poi tutto dipende dal pubblico, io posso banalizzare a mio figlio di 4 anni qualsiasi cosa con l'intento di salvare il contenuto, ma è ovvio che se faccio un seminario di fronte a degli accademici, il livello di banalizzazione sarà estremamente basso. 

Questa stagione è ambientata nel 1977, un periodo che sembra molto simile, per certi aspetti, al tempo che viviamo, con una forte opposizione tra conservatorismo e riformismo. L'analogia è valida?

Nei grandi trend della storia una contrapposizione tra reazionari e rivoluzionari esiste sempre, è l'essere umano che è fatto così. Quando si è giovani si ha bisogno di orizzonti, quando si è anziani di sicurezze. All'interno di questo scenario gli anni Settanta sono sicuramente molto tosti e ricchi. La similitudine la vedo in due cose: in quegli anni, con la crisi petrolifera si inizia a parlare per la prima volta di ambiente; l'altra è appunto il conflitto intergenerazionale, elemento che è proprio del Collegio, da sempre interessato a raccontare questo afflato di ribellione delle nuove generazioni. 

Un'altra percezione di questo tempo è che il solco di incomunicabilità tra giovani e non giovani sia quasi incolmabile. È sbagliato pensarla così?

Questo dal punto di vista psicologico è un bell'errore di attribuzione. Se avessi 25 anni forse questa distanza non la percepirei, se ne avessi 35 o 40, è ovvio che il divario avanza. A livello comunicativo c'è da dire che negli ultimi è cambiato in modo irreversibile il modo di comunicare, con il lockdown ha fatto sì che il digitale è stato preso letteralmente d'assalto.

Questo cosa determina sugli studenti?

Stiamo abituando il cervello ad essere ubiqui, essere dovunque e comunque con qualcuno se lo vogliamo, così come ad essere atemporali: tu mi scrivi e ti rispondo quando voglio, anche immediatamente, cosa che in passato non poteva accadere. Chi lo sta vivendo si abitua, chi è anziano vede ovviamente un buco. Se ci sommiamo i contenuti, tra le cose che dieci anni fa non si dicevano abitualmente e oggi si dicono, la frittata è fatta. Ma nel 2050, molto probabilmente, ci sarà qualcuno pronto a dire che la società del 2020 era una società interessante, sì, ‘ma non come la nostra'. 

Interessante il caso di Beatrice Kim Genco che chiede di non essere definita né ragazza, né ragazzo. Quanto è presente nel dibattito quotidiano della scuola il dibattito dell'identità di genere?

È un tema certamente molto caldo, sul quale conviene spendere delle parole, nel programma se ne parla ed è ovvio che non sia casuale la cosa. Nella quotidianità si affronta e credo sia legata non tanto ai tempi ma alle esigenze di risposte. In classe si parla di ciò che arricchisce e interessa gli alunni, dare spazio ai loro dubbi è uno dei principi dell'educazione, serve guardare le stesse problematiche da un'ottica storica, perché l'identità di genere non è una cosa di cui si parla solo nel 2021. Il contesto storico culturale attorno fa sì che alcuni dubbi esistenziali si modifichino e si aggrappino ad un sostrato, ma le domande sono sempre quelle.

Il dubbio linguistico e grammaticale però c'è. Oggi se una persona come Beatrice solleva una questione di questo tipo, come si comporta da docente?

Rigiro la domanda: il problema è linguistico o culturale? Non c'è linguista disposto ad affermare che la lingua non sia un portato di cultura e quindi è ovvio che le lingue nascano e si sviluppino in base alla cultura. In questo senso alcune lingue, come l'inglese, sono grammaticalmente facilitate perché non c'è una differenza di genere, o meglio non sempre, mentre lingue come la nostra hanno una struttura grammaticale più rigida che pone di fronte a questa questione. Gli escamotage per uscire dal binario del maschile e femminile esistono, dagli asterischi allo schwa, ma io credo sia una questione di sensibilità. Se una persona non vuole definirsi il problema non è grammaticale, ma filosofico e identitario. Le grandi barricate e le levate di scudo sulle convenzioni linguistiche e grammaticali le trovo un po' sterili. Se c'è rispetto per le posizioni di tutte le persone, la voglia di sentirsi uguali, la grammatica è secondaria. 

Professore "normale" per 10 mesi, star in Tv per 8 settimane all'anno. Colleghi e colleghe di tutti i giorni sono scettici o favorevoli?

C'è un po' di tutto. Diciamo che io tendo a non parlarne molto, sono schivo. I primi anni era una grande novità e le posizioni si agglutinavano sui due poli, a chi piace e chi depreca. Va anche detto che ormai siamo alla sesta edizione, con i colleghi di sempre è quasi normalità, mentre quelli nuovi che incontro ai corsi di informazione sono molto interessati, sia a capire dove stia il trucco, sia nel chiedersi come partecipare. 

Sul suo micromondo quotidiano non pesa la cosa?

Certamente incide perché vengo riconosciuto, pur non avendo un ruolo di spicco nel programma. Questa cosa è diventata tangibile in questi giorni ero a Lucca dove era pieno di cosplay e io, pur non essendo vestito da nulla, ero vestito da professore del Collegio. Ero in giacchetta e pantaloni, il cosplay di me stesso. 

Ottima soluzione per un carnevale senza sforzo.

Eh ma a quel punto io dovrei vestirmi da Maggi o Carnevale stesso, se non Petolicchio

Negli anni il successo del Collegio ha portato molti a percepirlo come una sorta di Grande Fratello per giovanissimi. Va anche detto che degli oltre 100 studenti sono pochi quelli che hanno continuato nel mondo dello spettacolo. È forse questo il segreto del programma?

È una bella domanda per una bella risposta: la verità è che Il Collegio non è un talent. I programmi da cui si esce trionfatori e star del web hanno comunque alla base l'idea di saper fare qualcosa con particolare talento. Ma qui non ci sono personaggi scelti perché sono bravi a fare qualcosa, vengono scelti per le caratteristiche di persone, perché hanno cose da dire. Dopo sono loro a giocarsela, non sono costruiti lì dentro, magari loro stessi accentuano alcune cose perché in qualsiasi esperimento l'occhio dell'osservatore altera il risultato. Finito Il Collegio loro sono loro. 

È questo il meccanismo che disinnesca le maschere dei ragazzi?

C'è sempre qualcuno che ci prova o imbroglia, ma io non ci vedo nulla di diverso dall'espressione di umanità.

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