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Opinioni

Il giorno che è morto Fabrizio Frizzi

Era il 26 marzo del 2018, quando letteralmente si aprì una voragine emotiva nell’opinione pubblica. L’addio a Frizzi è stato tutt’altro che “normale”, forse per quella sensazione generale che gli si dovesse una riconoscenza non dimostrata, forse perché c’era ogni giorno. E come tutte le cose quotidiane che rischiamo di dare per scontate, quando mancano fatichiamo a darci una spiegazione.
A cura di Andrea Parrella
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Fare questo lavoro, provare a raccontare le cose che accadono attorno alla Tv, costringe spesso a confrontarsi col tema della morte. E per la verità questa necessità non vale solo per "noi", ma questo piccolo pensiero che leggerete aveva bisogno di un incipit da cronista consumato. Negli ultimi anni sono diversi i grandi volti della storia della televisione che ci hanno lasciato, ma mai era accaduto ciò che è successo il 26 marzo del 2018, quando è toccato a Fabrizio Frizzi. E per me che sono cresciuto in quell'era televisiva che corrispose all'età di mezzo della carriera di Frizzi, un periodo non del tutto esaltante, l'ondata emotiva che caratterizzò quell'addio fu, per certi versi, inspiegabile.

Ci scommetto che è stato questo il pensiero di molti, oltre al dispiacere per la morte in sé la certezza inconscia di un dolore indecifrabile, uno sgomento che mai avremmo pronosticato. Inizialmente provai a motivarmelo in funzione di quell'opportunismo di fondo che supporta la nostra reazione alla morte di molti. Quando uno muore, d'altronde, il dispiacere è implicitamente obbligatorio, c'è un'ineludibile parte della reazione istintiva al lutto che fa parte di un cerimoniale, una liturgia dalla quale è impossibile sottrarsi. Ma no, non poteva essere solo quello. Perché l'opportunismo emotivo sfuma, si sposta altrove, vira opportunisticamente (per l'appunto) verso altri lidi. Per Frizzi non è stato così.

Era cominciato tutto col malore che lo aveva fermato mesi prima, costringendolo a una pausa forzata dalla Tv. Poi il ritorno, segnato da un senso di grande premura nei suoi confronti, pur senza informazioni precise sulla sua salute, come avvertissimo la necessità di proteggerlo e tutelarlo. Quando poi è morto Fabrizio Frizzi si è letteralmente aperta una voragine emotiva nella cosiddetta ‘opinione pubblica'. Un crollo generale, inatteso, che ha travolto il mondo della televisione e il pubblico tutto.

Le conseguenze sono state oggettivamente incredibili. A Frizzi hanno intitolato gli studi Rai, ai suoi funerali una quantità impressionante di persone ha atteso il feretro all'esterno della chiesa per un ultimo saluto, per tutto l'anno non si è mai persa occasione di ricordarlo, omaggiarlo, riconoscerne il garbo. Lo hanno fatto i colleghi, da quelli a lui notoriamente più vicini ad altri che non avevano avuto il tempo e il modo di conoscerlo come avrebbero voluto. A quasi un anno dalla sua morte il Festival di Sanremo di Claudio Baglioni si è fermato per dedicargli un grande applauso.

Per quanto indelicata possa sembrare una classificazione dei decessi, quella di Fabrizio Frizzi non è stata affatto una morte normale, perché accompagnata dalla percezione generale che gli si dovesse qualcosa. Forse per la sua giovane età, forse per la sconfinata e innegabile gentilezza umana che lo contraddistingueva o forse perché Frizzi faceva la televisione più complessa, quella di ogni giorno, quella che consideriamo una certezza e che a volte diamo, quella che rischia di passare inosservata e che, per tutte queste ragioni, ci lascia attoniti quando viene a mancare. È come un amore, come un parente. Fabrizio Frizzi era diventato una persona di famiglia.

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"L'avvenire è dei curiosi di professione", recitava la frase di un vecchio film che provo a ricordare ogni giorno. Scrivo di intrattenimento e televisione dal 2012, coltivando la speranza di riuscire a raccontare ciò che vediamo attraverso uno schermo, di qualunque dimensione sia. Renzo Arbore è il mio profeta.
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