Leggere attentamente le avvertenze: la visione di Generazione 56K nel pieno dei 30 anni può avere effetti collaterali. Il preavviso è cruciale, perché la prima serie targata The Jackal su Netflix è un altro capitolo di quel ritratto generazionale che il gruppo partenopeo, molto meglio di chiunque altro, è riuscito a tracciare negli ultimi anni attraverso formati diversi, si trattasse di spot, film o video destinati ai social.
I Jackal sono dei trentenni, dettaglio non irrilevante se consideriamo che l'indagine della generazione a cui appartengono è da sempre al centro del loro universo creativo (era già successo con "30 anni, il sabato sera"). Fattore a maggior ragione predominante in questa serie, che scatta un'istantanea di quel tempo della vita governato da indecisioni, incline ai rimpianti, contrassegnato da una spiccata propensione al gesto di voltarsi indietro per osservare il proprio vissuto con sguardo critico. Troppo giovani per dirsi vecchi, o troppo in là con gli anni per percepirsi ancora giovani? Questo è il dilemma.
Ebbene, come un coltello caldo nel burro Generazione 56K si infila in questo interrogativo attraverso un racconto che intreccia chi eravamo, chi speravamo di essere e chi siamo diventati. La serie ideata da Francesco Ebbasta – scritta con Costanza Durante, Laura Grimaldi e Davide Orsini – si concentra sul racconto di persone inconsapevolmente travolte dall'era digitale che ha cambiato ogni cosa delle nostre esistenze in un raggio d'azione che va dalla postura alla gestione delle pulsioni, l'automatizzazione dei sentimenti attraverso dei pulsanti: bloccare e sbloccare, seguire e non seguire più. Le vere "vittime" di questa rivoluzione, per pura casualità anagrafica, sono guarda caso i trentenni, anime analogiche assorbite da un uragano digitale che ha dato alla vita, e ai rapporti, nuove forme.
La chiave narrativa di Generazione 56K è un amore mancato al tempo dell'infanzia – gli anni '90 in una Procida di rado raccontata in una dimensione quotidiana – che si riaffaccia per caso nelle esistenze dei due protagonisti, Daniel e Matilda (Angelo Spagnoletti e Cristina Cappelli), esplodendo come una rivelazione e travolgendo le loro vite, convincendoli dell'idea che mettersi in gioco e rischiare sia ancora possibile. Anzi, necessario. Si ritrovano per caso alle soglie dell'età adulta, grazie alla complicità unilaterale di una app per incontri e il loro riavvicinamento dopo anni di silenzio è regolato dagli smartphone.
Nel frattempo sia riavvolge il nastro della loro infanzia, tra i traffici di videocassette e foto "proibite", la magia dell'internet dei primordi tutto da scoprire e un amore mai confessato. Sono i ricordi a dettare il ritmo e se è stata la velocità di un'app a far ritrovare Daniel e Matilda, è la memoria cartacea, materiale, a sbloccare definitivamente la storia mettendola sui binari giusti.
Ricordi, sempre ricordi. Un corposo fronte di opinione che condanna questo incessante ritorno, l'accumulo seriale di luoghi e momenti passati. La nostalgia è senza dubbio il sentimento del tempo che stiamo vivendo, un'emozione "oppiacea" che da anni contamina la rappresentazione della realtà. Pervade la televisione, il cinema, la musica, lo fa come una coltre rassicurante che protegge dal futuro. Non riguarda solo i trentenni, ma per questi ultimi, più che un rifugio, appare come una necessità, la maniera per trovare collocazione e stare al passo in un mondo che viaggia troppo veloce, costringendo spesso a correre oltre i propri limiti, oppure a fermarsi. Che la soluzione finale del protagonista di Generazione 56K sia la realizzazione di una app che tutela la memoria (l'allusione non è uno spoiler) pare chiudere il cerchio di questo ragionamento, fatto da un trentenne forse troppo coinvolto nella trama.
Sarebbe un errore guardare con pregiudizio ai walkman, al rumore dei modem della prima ora, al tappeto musicale degli 883 di Generazione 56K, riducendo questi elementi narrativi a scelte facili, di convenienza. Per quanto abusata, la nostalgia non è uno strumento per tutti e il suo utilizzo non è garanzia di riuscita. È anzi una materia estremamente delicata, un lievito che richiede conoscenza, esperienza e rispetto. Solo chi ha la sensibilità per maneggiarla consapevolmente ottiene il pane che desidera e questa serie ha la fisionomia di un manuale sull'uso che si può fare della nostalgia, quindi un antidoto alla nostalgia stessa. Mai fine a se stesso, scevro di opportunismi, coerente con la narrazione di chi se ne appropria. I ricordi bisogna saperli ricordare e i The Jackal lo sanno fare benissimo.