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Ferro il docufilm, Tiziano Ferro a Fanpage.it: “Mi commuove pensare che mio padre mi vede felice”

È uscito il 6 novembre su Amazon Prime Video, il docufilm sulla vita di Tiziano Ferro, dal titolo Ferro. Da una sua stessa idea, prodotto da Banijay Italia, diretto da Beppe Tufarulo e scritto da Federico Giunta e Beppe Tufarulo, il documentario è un intenso e potente viaggio nella sua vita privata e professionale, girato tra l’Italia e gli Stati Uniti, dove ora il cantautore vive con suo marito Victor Allen. Fanpage.it lo ha raggiunto nella sua villa di Los Angeles per parlare dei destinatari di questo progetto così intimo e per capire con lui il significato dell’aggettivo ‘disadattato’.
A cura di Eleonora D'Amore
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È uscito il 6 novembre su Amazon Prime Video, il docufilm sulla vita di Tiziano Ferro, dal titolo Ferro. Da una sua stessa idea, prodotto da Banijay Italia, diretto da Beppe Tufarulo e scritto da Federico Giunta e Beppe Tufarulo, il documentario è un intenso e potente viaggio nella sua vita privata e professionale, girato tra l'Italia e gli Stati Uniti, dove ora il cantautore vive con suo marito Victor Allen. Un viaggio emozionante tra le varie fasi della sua vita, segnate, ognuna a suo modo, da pessimi rapporti: con il cibo, con l'alcol, con l'amore, con se stesso. Epifanie che sopraggiungono nella sofferenza del non bastarsi e del sentirsi perennemente sbagliato, a tal punto che anche la fama era arrivata a sembrargli un difetto.  Lo abbiamo raggiunto nella sua villa di Los Angeles per parlare dei destinatari di questo progetto così intimo e per capire cosa l'ha spinto verso questa profonda condivisione con il suo pubblico.

Chi sono i destinatari di questo docufilm?

Per assurdo il destinatario sono io. È un gesto di gentilezza e di amore verso me stesso, il bisogno di prendermi il diritto a 40 anni di dire che non ho bisogno di filtri, che abbracciare se stessi è il privilegio più grande e “pensare che la difficoltà sia qualcosa della quale vergognarsi è semplicemente un peso in più che ti impone una vita da bipolare inutile. Questa cosa l’ho capita subito, a 20 anni quando è arrivata la fama. Sono scappato all’estero, avevo il terrore che questa fama mi rendesse una persona ignorante. Da lì ho capito che avevo un senso di autoconservazione e una caparbietà che mi hanno portato, un po’ per follia e un po’ per disperazione, a cercare di lasciarmi essere me stesso, di esistere in una versione sola.

Ti autodefinisci ‘un disadattato’. Mi spieghi in che senso e come hai vissuto questa condizione?

Lo sono sempre stato. Nella Pazza Gioia di Virzì c'è Micaela Ramazzotti che dice ‘Io sono depressa, sono nata più triste, che ci vuoi fare, è così”. Io ho pensato che era bello si parlasse di malattia mentale e di depressione come una condizione reale e non soltanto come una condizione ambientale legata alla fidanzata che ci lascia. Questa cosa è vera, anche io ce l'ho. La celebro, ci rido, hashtag disadattato #disadattato, facciamolo diventare popolare, perché non siamo soli.

Ultimamente si è parlato spesso di quanto il coming out di un artista possa inficiare il suo percorso professionale. Tu invece del tuo racconti tutt'altro…

Io mi sono allontanato dal risultato. Ho fatto un percorso mio a 28 anni perché non riuscivo nemmeno ad alzarmi dal letto, bevevo dalla mattina alla sera, non capivo quale fosse l'origine di quel dolore. Un giorno mi dico che ho bisogno di aiuto. Capii quanta liberazione ci sarebbe stata nel presentarmi per quello che volevo e non ce la facevo più a non avere una storia d’amore, perché io sono un assolutista nell’amore. E non mi davo la possibilità di avere una storia d'amore perché non l'avrei potuta condividere quindi c’era questa repressione che mi uccideva. Così è diventata la mia personale ricerca d’amore. E aggiungo che questa cosa è arrivata in un momento di estrema popolarità, riempivo palazzetti e vendevo centinaia di migliaia di copie, quindi non è mai stata una manovra commerciale o un mezzo promozionale, perché il solo pensiero mi avrebbe disgustato.

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In questo docufilm si avverte una grande esigenza nella definizione di ‘casa'. Per te, che vivi in America, lo sono parimenti Latina, Milano, Londra, Los Angeles, quindi in questo momento, in cui tutti siamo costretti in una dimensione domestica, come la vivi avendo questa pluralità di casa dentro di te?

È una domanda estremamente importante perché nel percorso di accettazione il concetto di casa è una delle cose che mi ha tormentato di più. Perché non mi sono mai arreso all’idea che la fotografia della mia vita dovesse avere sempre cento pezzi sparsi per il mondo e pensavo che fosse l’ennesimo segnale di grande imperfezione. Poi ho capito che invece che perdere tempo a guardare gli svantaggi della propria condizione forse conviene iniziare a contare le cose per le quali si è grati. E oggi è faticoso sì, pensare di dover passare Natale con la mia famiglia dovendo fare 15 ore di volo ma si fa. Lo so che mia madre soffre la mia lontananza però mio padre dice sempre una cosa che mi commuove: “Ca**o, ho un figlio di 40 anni e per la prima volta lo vedo felice. E nonostante la lontananza, questo mi basta”.

Credo che tu abbia toccato delle parti sensibili e comuni a molti, che in fondo però appartengono solo a te. Ti chiedo allora a chi servirà di più questo docufilm, a te o a chi lo vedrà?

Io consiglio a tutti di liberarsi e di abbracciare le fragilità perché si vive meglio. C’è una frase di Battisti e Mogol della canzone Nessun dolore, che dice ‘l’applauso per sentirsi importante, per quale gente’. Se ti applaudono per una cosa che stai mettendo in scena senza crederci, quanto vale quell’applauso? Pensa agli ultimi giorni, alla cascata infinita di meravigliose dediche a Gigi Proietti, all’amore che la gente gli sta donando. La qualità di quell’applauso è inequivocabile.

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