Barbara Alberti: “Il litigio tra Vittorio Sgarbi e Barbara D’Urso non è la vita, è solo tv”
Barbara Alberti ha accettato il Grande Fratello Vip 2020 perché “i vecchi, pur non avendo futuro davanti, sono affamati di esperienze come i ragazzini”, ma ben presto si è accorta di essere finita in un meccanismo infernale. Nonostante i soldi e la vanità, se ne è andata tra le polemiche, ma sembra già averle dimenticate tutte. E benché non sia mai riuscita a fare differenza tra quotidianità e piccolo schermo, dopo questa esperienza (e la sfuriata di Vittorio Sgarbi verso Barbara D’Urso) sembra più consapevole che, sì, una differenza c’è eccome.
La incontriamo nella sua bella villetta di Roma, che si trova in un tranquillo quartiere dove “non ci sono gli invasori”, cioè i turisti, e quando entri ti accorgi fin dal primo istante del perché quell’ingenuità sulle bagarre televisive. I libri sono i veri padroni di casa. Oltre 20mila: sulle scale, sui mobili, in soggiorno, in cucina. Non c’è anfratto che non sia occupato da volumi di ogni tipo. Così come nella camera da letto, dove entusiasta ci tiene a elencarmi gli autori preferiti e che occupano un enorme scaffale che ricopre una intera parete. Per il resto: niente smartphone, social o tv, solo un vecchio computer con le mail e una radio.
Perché Barbara Alberti, nonostante sia da tempo una assidua frequentatrice di programmi televisivi di ogni genere, rimane una delle scrittrici più prolifiche e originali del panorama italiano, con oltre trenta titoli a partire dalla fine degli anni ’70 fino ad arrivare ai giorni nostri, senza contare le innumerevoli sceneggiature cinematografiche e incalcolabili articoli su svariate riviste nelle quali si è occupata di vicende amorose. Da sempre dalla parte del gentil sesso – ma non femminista perché quelle dei suoi tempi “erano cattivissime” e recentemente neppure vicina al movimento #MeToo che “è stato una passerella di puritanesimo” – è considerata una delle donne più anticonformiste in circolazione. A metà tra l’irriducibile Don Chisciotte e la coraggiosa Giovanna D’Arco, alla fine ci ha confessato di aver compreso qualcosa di ben più importante di quel che accade mediaticamente: “Che la felicità non va teorizzata”.
Partiamo dalla lite tra Vittorio Sgarbi e Barbara D’Urso, visto che lei Sgarbi lo conosce bene. Ci ha scritto persino un libro nel ’94: “Il promesso sposo”. Che gli sta succedendo?
Il libro era nato proprio perché avevo un totale disprezzo per lui. Non avevamo in casa la televisione e l’ho presa dopo averlo incontrato. Mi avevano parlato di questo Sgarbi dopo che aveva dato della “stronza” a una professoressa al Maurizio Costanzo Show dicendomi che era anche un gran conquistatore. Ho pensato: sarà il solito vigliacco che se la prende con i deboli e rispetta i potenti. Insomma, un playboy antipatico. Invece una sera a cena con un amico, entra questo professorino di Ferrara, mezzo gobbo, timidissimo, con un alone di forfora sulle spalle, le scarpe un po’ sformate e ne sono rimasta incantata. Aveva una grazia da fanciullo, sembrava un abatino.
Al di là dell’aspetto, che cosa può dirci dell’evoluzione di Sgarbi in televisione?
È stato un grandissimo fenomeno televisivo. Ha fatto una rivoluzione, purtroppo degenerata. Un conto era fare dell’arte, come intendeva lui, un altro quello che succede oggi.
Durante lo scontro con Barbara D’Urso lei era in studio.
Sì. Anch’io ho avuto uno scontro con Sgarbi, abbandonai lo studio quando mi diede della vecchia befana. Ma sa, quando i vecchi danno della vecchia a una vecchia, credono di tornare giovani. Non sfuggono neanche i geni. Dopo, però, sono dovuta andare dal dottore per lo sbalzo di pressione e sono stata male. Anche questa volta con la D’Urso. Ero nelle sfere sarei dovuta intervenire subito dopo. In quel momento, ho provato un vilissimo senso di soddisfazione e immunità per essere fuori dalla mischia. Poi la notte non ci ho dormito.
Come mai?
Mi sono rovinata da giovane con i romanzi cavallereschi della Tavola Rotonda. Così, la notte ho pensato molto e, benché Barbara D’Urso sia una donna forte, in quel momento era una fanciulla necessitosa, come avrebbe detto Don Chisciotte, e se fossi stata all’altezza di quello che mi credo di essere sarebbe stato mio dovere intervenire. Anche perché a settembre anch’io sono stata aggredita verbalmente da un cameriere pazzo e ho dovuto prendere psicofarmaci per tre mesi a causa di crisi di nervi e insonnia. Infatti, avevo cominciato a scrivere un articolo titolato: “Le dimissioni di Don Chisciotte” ma poi, per la prima volta, ho avuto una illuminazione: era solo televisione. Forse prima di morire dovevo capirne la differenza.
Eppure, sono tanti anni che frequenta ogni genere di trasmissione.
Però non riuscivo a distinguere la televisione dalla vita. Per questo sono uscita dal Grande fratello vip. Mi sono divertita enormemente all’inizio, perché ti levi dai piedi a casa, entri in una bolla, non esiste più il reale e neanche le notizie legate a tutta l’industria dell’ansia. I social non mi toccano. Ho un computer, una radio, non ho smartphone. Non voglio essere sempre collegata. Quelli della mia età non sono conformati, abbiamo una mente diversa. Con una comunicazione così immediata, gli altri si aspettano una risposta. Ma io sono molto più vicina ai miei nonni dell’800 che ai ragazzi di oggi. Non per snobismo, ma rimango legata a quel mondo.
Ma ha accettato di entrare al Grande Fratello Vip. Che ne pensa della frase “sei un Buscetta” pronunciata da Clizia Incorvaia?
È stata una regressione all’infanzia. Clizia è molto intelligente e anche colta, tra le poche persone vere lì dentro. Viene da una famiglia fortemente anti-mafiosa, ma il rapporto con Denver l’ha portata a sentirsi tradita e ha fatto un salto nell’infanzia. Gli voleva dare dell’infame, che appartiene al linguaggio della malavita, non si usa tra le persone perbene. Ma là dentro ti scordi delle telecamere. Poi ci sono gli incauti e i calcolatori.
Gli autori quanto influiscono sulle scelte dei concorrenti?
Sono gli angeli custodi e gli aguzzini. Le spie e le mamme confidenti. In confessionale alle 4 del mattino, mi sono dimenticata che tutto sarebbe andato in onda. Però un servizio di ascolto così ci vorrebbe a casa. Non ti lasciano mai solo. Per qualsiasi cosa, vai lì e ti ascoltano. E sono di un ottimo livello. Io ho usufruito della psicologa, quella senza microfono. Insomma, perdi la cognizione delle telecamere. È un meccanismo infernale. Io sono uscita perché era diventato tutto ambiguo. Per esempio, Fabio Testi con me era un gentiluomo, quando sono uscita ho scoperto che diceva cose tremende sul mio conto.
E la bestemmia che lei stessa avrebbe pronunciato?
È stata cosciente e volontaria. Stavo raccontando un mio libro, che descrive una donna compagna di un brigatista e latitante. Lei viene assunta in una scuola e un bel giorno la chiama il preside accusandola di aver bestemmiato: “Dio budellone”. Che è infantile. Se ne è parlato tanto, ma torniamo al conformismo. Sarebbe come se dicessi che “il tavolo è zoppo” e mi accusassero di aver offeso tutti gli zoppi. “Il tavolo è claudicante” non si può sentire.
Come la polemica che l’ha vista protagonista con Francesca Cipriani sulla chirurgia estetica.
Ho cercato di nobilitarla, invece si è offesa. Non è un titolo di merito rifarsi, ma una scelta. Tante amiche rifatte sono bruttissime, ma contente. La vecchiaia femminile è stata abrogata dal mercato. Io mi sono corretta un difetto non visibile e sono grata alla chirurgia estetica, però sono invecchiata normalmente perché ho pensato che non sarei mai stata così brutta da vecchia come da rifatta.
Usciamo dalla televisione, visto che lei è prima di tutto una scrittrice.
Le posso dire che negli ultimi 20 anni gli scrittori finalmente ci sono. C’è in giro una grande letteratura italiana. Posso fare tanti nomi. Michele Mari. Carlo D'Amicis, Massimiliano Parente che è l’ultimo dei veri diversi, grande scrittore e anticonformista che Enrica Bonaccorti definisce “il nostro cugino matto”, e poi le donne: Patrizia Cavalli, Ginevra Bompiani, Antonella Prenner, Fiamma Satta e Chiara Barzini. Oppure Viola Di Grado. Non le avrei dato un soldo, con quel rossetto nero, invece è un fenomeno. Ma anche in letteratura non bisogna fare distinzioni di genere.
A cosa si riferisce?
Carlo D'Amicis con il bellissimo libro “Il gioco” è stato affossato due anni allo Strega solo perché maschio. È stato molto offensivo, perché non devi premiarmi perché donna. Ti prendo a schiaffi! Prima non ci premiavano perché donne e ora sì perché lo siamo. Le quote rosa sono una triste necessità, perché ci pagano meno. Però è sempre un marchio.
E lei che scrittrice si considera?
Ho scritto molto male fino a 20 anni. Se rileggo le cose di allora, mi verrebbe da menarmi. Andavo bene a scuola, nei temi discretamente, ma ho scoperto dopo il miracolo della scrittura con la quale puoi essere tanti altri rispetto a te stesso. Delle biografie sono molto orgogliosa.
Ricollegandomi a quella che scrisse su Majakovskij ricordo che in un articolo lo paragonò allo scrittore Andrea Pinketts, prematuramente scomparso.
Caro Pinketts, l’ultimo artista romantico travolto dai suoi eccessi. Sapeva benissimo che si sarebbe rovinato. Ho dei ricordi bellissimi di lui. A una conferenza noiosissima, in fondo alla platea vedo arrivare quest’uomo dell’Avana, con abito e cappello bianchi, con un sigaro e un bicchiere in mano. È morto con un bicchiere in mano. Un grande artista della vita. Mi ricordava Majakovskij, per entrambi erano giganti. Dei giganti indifesi.
Che cosa può insegnarci ancora oggi Majakovskij?
Intanto rappresenta tempi meravigliosi che non abbiamo vissuto. Possiamo immaginare cosa siano stati gli anni dal 1917 al 1924, prima di Stalin. Un momento di libertà creativa, le avanguardie vere sono nate tutte lì. Quelle italiane e francesi, in confronto, erano delle signorine. Majakovskij lo adoro perché amo i perdenti. È una mania dei decadenti. Era un coacervo di contraddizioni: l’uomo più libero del mondo che cerca di adattarsi al sistema, ma non può perché troppo libero. Chi è così rivoluzionario deve restarlo fino alla fine. Quando scrive “compagno Stalin mettimi lo stivale sulla gola perché io non scriva” e nello stesso giorno compone cose terribili contro il regime. Muore di libertà. Stalin gli dà un’ultima possibilità, con l’elogio funebre di Lenin. Lui arriva e scrive una poesia pazzesca dove in sostanza sostiene “sulla parete bianca siamo io e te” e tutti gli altri sono dei traditori. Quando ha finito, si sono sentiti dei piccoli applausi come a un funerale. Era già morto. E poi la lingua russa aiuta.
Non è l’italiano, come dicono in molti, una delle lingue più espressive?
Assolutamente no, questi pazzi russi avevano una lingua che si prestava, con trentasei suoni diversi. Come puoi fare il futurista con l’italiano, non ci riesci fino in fondo con questo “linguaggino” inventato da Manzoni. La lingua italiana esiste solo nei dialetti. Si può scrivere solo reinventandola per eccesso di classicità o per eccesso di avanguardia. Moravia, la Maraini, Montefoschi, Bevilacqua, con tutto il rispetto: ma chi li legge più? Sono troppo educatini. O sei Umberto Saba, che ha una lingua classica meravigliosa, o sei destinato a sopravvivere solo a scuola.
Lei scrive anche per i giornali, tenendo rubriche amorose molto seguite. In passato incontrava personalmente le sue lettrici.
Quando ero ingenua, i primi tempi. Soffrivo d’amore e allora ho pensato di guarirne scrivendone. Incontravo tutti, però dei matti devo stare attenta. Io sono una matta che ho fatto il patto sociale. Sono un matto incompleto. Vengo riconosciuto da loro, però ho smesso di tirarmeli in casa. Sono un matto rinnegato. L’incarnazione della mia pazzia si trova nei miei volumi.
Anche in radio ha contribuito alla diffusione della letteratura, con un programma diventato di culto come La Guardiana del faro.
È stato il periodo più bello della mia vita. Se fossi ricca farei solo la radio. Un giorno ci hanno mandato le telecamere, dicendo che servivano per Facebook. Ma chi è questo? Così, una volta ho messo una maschera da Groucho Marx, un’altra il burqa e l’ultima da “culo”. Le hanno levate. Io facevo radio per essere invisibile. Anche le puttane hanno i loro tabù. E siamo migliori proprio perché invisibili. La radio, come la bicicletta, sono convinta sarà eterna.
A proposito di “culo”, ricordo una sua fantastica recensione radiofonica su Isabella Santacroce, nella quale spiegava perché non era considerata dalla critica.
Sì, non le riconoscono che è un genio della scrittura perché ha un fantastico lato B. Lei è proprio assoluta. Per più di vent’anni, da quando la conosco, non ho mai visto una sua caduta. Lei è la sua poesia. Stavo scrivendo il libro su Tolstoj, otto anni di lavoro, all’ultimo capitolo ho la debolezza di aprire un libro di Isabella e ho scritto l’ultimo capitolo tutto in linguaggio santacrociano. Ho dovuto buttarlo. Il problema non è che la critica non al riconosca, ma che una diversa assoluta come lei sia ancora viva. E poi è di una simpatia incredibile e, solipsista com’è, sa amare. Come Massimiliano Parente, non è venuto a patti con la sua pazzia però la sa portare con molta eleganza, come un cappotto. E poi ha fatto questo patto di non vivere mai più sobrio, come Majakovskij.
Si spiega invece le vendite di un autore come Fabio Volo e le relative polemiche?
Povera creatura, non ha nessuna colpa. Non ho mai letto un suo libro, l’ho aperto in libreria e mi è sembrato poco interessante, senza una scrittura viva perché l’italiano va reinventato. Però penso che sia una brava persona e se il pubblico lo compra non è colpa sua. Va incontro a certi gusti, senza farlo apposta. Mi è simpatico e ha tutto il diritto di esistere. Ma vogliamo parlare della Sardegna?
Se proprio ci tiene.
È il riscatto dell’Italia. I sardi sono gli ultimi che hanno il senso della giustizia sociale. E poi c’è una attività intellettuale straordinaria e circola un umorismo british. Il mio amico Filippo Martinez, pittore e scrittore, si è talmente offeso di aver compiuto 50 anni che alla Biennale di Venezia sui quadri ha riportato: “L’artista è morto, non si possono rintracciare parenti”. Ha appena scritto un libro sugli angeli che è un capolavoro. Sono una separatista sarda. E poi c’è Michela Murgia.
Che pensa di Michela Murgia?
Mi spiace solo che non faccia politica. È tosta, la vorrei in Parlamento. Ci credo che i Leghisti si accaniscano su di lei, perché vedono un vero avversario. Lei Salvini lo farebbe a fette. È l’unico capo di popolo che potrebbe contrastarlo.
Però stiamo parlando solo degli altri e non di lei.
A trent’anni sapevo cose che non so adesso. Le so quando scrivo. Meno ci penso e meglio è. Certo, poi c’è una parte professionale di artigianato, ma la mia mano è più intelligente di me. Sono convinta che oggi ci sia grande letteratura per via del computer. Nell’italiano, così insidioso, grazie al computer non rischia più di fare erroracci e ciò fa sì che si riesca a scavalcare la lingua. Io voglio scrivere correttamente, ma un linguaggio inventato che va oltre gli impacci della lingua.
Qual è il suo libro che la rappresenta di più?
“Delirio”. L’Io narrante di un uomo ignobile, che sta in un collegio, innamorato di una ragazza e pensa solo al sesso. Un narcisista. È stato un momento di grazia, tanto che mi affacciavo alle scale e gridavo: “Amedeo, corri, ho scritto cose tremende”. Mi spaventavo. Per il resto, mi piacciono tutti sennò non li pubblicherei. Ne ho buttati tanti. Può succedere. Devo riscattarmi con la scrittura, non posso accettare che veda la luce una cosa brutta.
Se le chiedo qual è la prima immagine che le viene in mente di lei bambina, quale mi descriverebbe?
Le mucche! Sono umbra e stavo seduta sul gradino di casa e guardandole mi chiedevo: “Che penseranno di me i buoi?”. Una immagine molto agreste. In quel periodo è anche arrivata la scrittura. A scuola ci facevano fare le aste per dei mesi, quando è stato il momento del primo “pensierino” ho subito capito che avrei scritto. A 6 anni è arrivato questo modo per uscire dalla mia pochezza. Una fuga, per schivare sé stessi che è sempre un problema.
Che infanzia ha avuto?
Nasco in Umbria, con educazione schizofrenica: nonni paterni anarchici toscani dove si parlava con le frasi delle opere e non si andava mai in chiesa. La nonna materna, invece, una grande bigotta che mi ha dato una visione della religione mostruosa, con un Dio utile solo a punire, dove tutto era peccato, anche ridere. Però che fonte di ispirazione, con una mitologia fantastica di angeli e diavoli.
Poi il trasferimento a Roma, che però ha detto più volte di non aver mai amato.
“Volgarità è essere dalla parte della propria degradazione” scriveva Adorno. Ecco, i romani sono fieri della loro degradazione. C’è anche un lato popolano molto divertente, la prontezza della battuta. Ma l’umorismo è sempre aggressivo, e con le donne sono cattivissimi. Ti fanno piangere a 15 anni e a 70. In più, è l’unica città in cui sfottono i vecchi. Ero ragazzina, davanti all’università, aspettavo l’autobus vicino al Verano, il grande cimitero di Roma. Appare una vecchina, che ti veniva solo voglia di prenderla in braccio, e in quel momento un ragazzone dall’altra parte della strada le fa: “A nonné, te stai a scegliè er marmetto?”. Se fossi stata Superman gli avrei dato un tozzone sul muso. La Roma di allora era molto diversa da quella di oggi, ma già insopportabile.
Non sarà solo l’ironia spietata a darle fastidio.
Io ho sempre vissuto in casa, il mio quartiere è una isola. Nasce nel ‘900, non ci sono monumenti e soprattutto i turisti, uno dei grandi guai di Roma. Questi eserciti, malvestiti, aggressivi. Sono degli invasori che percorrono la città in lungo e in largo. Ma perché si vestono così male?
Qual è il suo libro che la rappresenta di più?
“Delirio”. L’Io narrante di un uomo ignobile, che sta in un collegio, innamorato di una ragazza e pensa solo al sesso. Un narcisista. È stato un momento di grazia, tanto che mi affacciavo alle scale e gridavo: “Amedeo, corri, ho scritto cose tremende”. Mi spaventavo. Per il resto, mi piacciono tutti sennò non li pubblicherei. Ne ho buttati tanti. Può succedere. Devo riscattarmi con la scrittura, non posso accettare che veda la luce una cosa brutta.
Che ragazza era Barbara Alberti?
Osip Mandel'štam, poeta russo morto in un lager staliniano per troppo senso della libertà, diceva: “Non posso offrire garanzie su me stesso. Su di me non ho che indizi”. Se mi chiede di parlare di me le dirò un mucchio di sciocchezze. Ero totalmente incauta, con dei capelli grandi così, una pazza. Soffrivo molto, perché ero presa da me stessa e non avevo scoperto l’esistenza dell’altro. Dovevo essere invadente e insopportabile. Avevo un mondo talmente violento dentro di me che non mi rendevo conto. Verso i 20 anni il miracolo: ho preso atto dell’esistenza degli altri e la mia vita è cambiata. Ti distrae da te, cominci a vivere e hai la cognizione dello scambio, che alla fine è tutto.
È sempre stata considerata una anticonformista…
Oggi sono tutti conformisti. Si offendono per nulla. Stanno censurando il linguaggio poetico. Non puoi usare metafore. I social ne sono l’incarnazione di questo clima. Preferirei essere uno schiavo egizio con le catene ai polsi, perché una schiavitù ai social non c’è mai stata, volontaria per di più. È una gara al conformismo, ma se ti capita qualcosa di bello nella vita è proprio perché sei uscito dagli schemi. Invece con il conformismo dei social ci costruiamo un’altra bara in vita.
Si è battuta molto, anche attraverso i suoi libri, per i diritti delle donne. Però non la ricordo vicina al movimento #MeToo, come mai?
Potrebbe sprofondare nell’Oceano quel movimento, perché è stato falso, di un conformismo, un perbenismo e un puritanesimo inaccettabili. Ha solo scoperchiato lo scandalo internazionale di ricatti nel mondo del cinema. Ma non sei molestata quando sei una attrice, ma quando hai 700 euro al mese e un figlio disabile e non puoi dire di no. Noi donne dobbiamo pagare una tassa per lavorare. Le ragazze del #MeToo di questo sono totalmente colpevoli. Non erano disgraziate, ma belle, giovani, talentuose, star internazionali e la dai a quel rospo per fare un film in più? Ma non hanno un minimo di orgoglio? Ai bambini bisogna insegnare l’inviolabilità del proprio corpo. Weinstein non era Hitler, c’è chi ce l’ha fatta anche senza di lui.
Non le sembra di essere impietosa?
No, perché se sei una puttana va benissimo. Una commerciante fa un patto: io ti do questo e tu mi dai quello. Sei all’altezza del tuo mercimonio. Ma evidentemente non erano così. Si sono tenute dentro tutto per vent’anni e poi hanno fatto questa psicoanalisi di massa. Il #MeToo è diventato una passerella che non è servita alle donne di tutti i giorni. Ma la guerra era sugli stipendi e difendere quelle che non riescono a farlo da sole. Le femministe dei miei tempi, dalle quali mi sono allontanata perché odiavano le donne ed erano cattivissime imbevute di cultura maschile, però hanno cambiato le leggi. E poi facevano paura: “Le streghe sono tornate”. Non c’era conformismo, non erano in passerella, era una rottura. Non le rimpiango, però le sono molto grata perché hanno fatto delle cose per tutte noi.
Asia Argento ne era il simbolo, ma poi è stata a sua volta accusata di molestie dal giovane attore Jimmy Bennet.
Lei aveva 36 anni e lui 17, ma cos’è una violenza? Questo ragazzo gli ha fatto lo stesso scherzo che lei ha fatto a Weinstein. Invece lei avrebbe dovuto rispondere: è vero, e allora? È reato? Per me no, perché a 17 anni un ragazzo sa benissimo cosa sta facendo. Fino a qualche anno fa era favorito il rapporto con le donne più grandi, con la definizione volgarissima di “nave scuola”. I ragazzi hanno sempre desiderato una donna più matura. Sul femminicidio salterei la forma, ma se ci fosse stato il preticidio o il maschicidio sarebbero già state varate delle leggi speciali.
Lei è stata sposata con il produttore Amedeo Pagani, poi vi siete divisi ma abitate ancora nella stessa casa. Che cosa ha rappresentato per lei?
Una fortuna! Siamo stati molti innamorati da ragazzi, abbiamo fatto insieme tanti film e nonostante avesse la mia età è stato il mio maestro. Mi ha insegnato tanto. Solo dopo il settimo libro mi ha fatto i complimenti. Mi ha aiutato come editor finché siamo stati insieme. Allora l’editor non esisteva come figura, per fortuna. Alla Mondadori quando sono arrivata io c’era Vittorio Sereni, un poeta.
Ai suoi figli, cosa pensa di aver insegnato?
Il senso della libertà. Il suo vantaggio. Di seguire la propria vocazione e la propria coscienza. E come i miei nonni a me, spero anche il senso dell’umorismo. È il terzo occhio, perché se prendi la vita così com’è ti spari a 5 anni. L’ironia è una grande trasformazione del mondo, come puoi accettare la morte se non ridi?
Quindi vive bene il trascorrere del tempo?
Per niente, sono incazzata nera di essere vecchia. Ma era peggio da giovane. Dai 24 ai 30 ero terrorizzata. A 24 un amichetto mi disse: “Come sei invecchiata”. Mi erano venute le rughe d’espressione. Dopo i 30 una passeggiata. Più vai avanti e più sei contento di essere vivo. Ora sono in quella fase, delicatissima, nella quale speri di non morire troppo tardi. Dispiace mollare l’osso, però non essere più è inconcepibile. Inizio a darmi un tempo, perché non voglio rimanere in certe condizioni, Finche ragiono e cammino, posso andare avanti altri 50 anni, ma se una delle due condizioni viene meno bisogna essere un po’ stoici e levarsi dai piedi. Sono per la libertà del suicidio. È un diritto nascere e lo è nello stesso modo uscirne. Ho fatto i miei passi in tal senso.
Se potesse scegliere di reincarnarsi in un personaggio storico, chi sceglierebbe?
Giovanna D’Arco. Quando l’inquisitore Pierre Cauchon le chiese: “Cosa vi dissero le voci stanotte?” per prenderla in giro, le gli disse: “Di rispondervi arditamente”. Questo cerco di fare: rispondere arditamente e secondo coscienza.
E la sua treccia di capelli, così famosa, rappresenta la sua vanità?
Sì, la vanità nasce e muore con l’uomo. Il bambino appena si specchia diventa vanitoso, come mia madre che a 90 anni ha detto “oddio sono diventata una vecchia”. E la mia treccia è un po’ come per Cyrano, al quale in fondo non importava nulla di Rossana ma solo del suo pennacchio.