“La vita non ci appartiene, ci attraversa”. È l'epifania di Anna, la protagonista del fragoroso e potente romanzo di Niccolò Ammaniti, edito da Einaudi, che adesso è diventata la sua seconda serie tv Sky Originals, a tre anni di distanza da quella grande opera prima che è stata “Il miracolo”. Chi guarderà i sei episodi tutti disponibili a partire dal 23 aprile sulla piattaforma di Sky e Now non faccia l’errore di derubricare tutto alla solita serie post-apocalittica. Guardarla in questo momento storico (ogni episodio si apre con la precisazione che il romanzo è uscito nel 2015 e la serie è stata girata sei mesi prima dello scoppio della pandemia di Coronavirus) può far raggelare il sangue, ma allo stesso tempo può fornire lo spunto per nuovi riferimenti e modelli comportamentali: da un'idea di vita che sia eco-friendly a un senso della collettività che sia il più libero possibile da vincoli.
Ma restando a quello che lo spettatore deve sapere prima di schiacciare play: il mondo è stato devastato da una malattia chiamata “La Rossa” che ha spazzato via gli adulti. Solo i bambini sono immuni ma appena arrivati in età di sviluppo, anche loro iniziano a contagiarsi. In una Palermo distrutta – fantastico il Teatro Massimo ridotto a un rudere in una delle prime inquadrature dall’alto – si muovono Anna e Astor anche grazie ai consigli della loro madre, Maria Grazia, che prima di morire ha scritto per loro “Il Libro delle Cose Importanti”. Anna (Giulia Dragotto) ha 14 anni e per proteggere Astor (Alessandro Pecorella), che di anni ne ha soltanto 8, gli lascerà credere che fuori dalla loro casa immersa nel verde, oltre il recinto fatto di pezze, ci sono mostri di ogni genere. Durante una delle spedizioni di Anna per cercare cibo, Astor sarà catturato da una cellula dei Blu, una comunità di bambini comandata dalla tirannica Angelica (Clara Tramontano) che tiene nascosta un’adulta, La Picciridduna (Roberta Mattei), l’unica a non essere stata infettata dalla malattia. Lo scontro tra fazioni sarà inevitabile.
I piani temporali si intrecciano di continuo, lasciando che lo spettatore scopra, attraverso il loro passato, qualcosa di più sul presente di tutti i personaggi in scena. Serve attenzione perché lo spazio in cui si muove il linguaggio di “Anna” è incredibilmente denso. È una serie post-apocalittica, certo, ma non ha l’approssimazione e lo splatter gratuito di “The Walking Dead” per fare paragoni mainstream. Siamo più alle latitudini e alle profondità di quanto gli avvezzi ai videogame hanno provato giocando a “The Last of Us”. Per sprecare un paragone letterario – speriamo non troppo abusato – siamo a un punto di incontro perfetto tra "Il signore delle mosche" di William Golding e "La strada" di Cormac McCarthy.
Niccolò Ammaniti continua a conservare dentro di sé particelle autentiche della sua giovinezza da “cannibale” e – al pari di quanto fatto per il romanzo – non ha alcun problema nel farci vedere come muoiono i bambini. C'è chi lo preferisce come scrittore e non come regista. Può stare bene, ma quando sullo schermo c’è un piccolo di sette forse otto anni che si lancia ingenuamente nel vuoto e il movimento di macchina indugia ancora pochi istanti, quelli giusti per lasciare allo spettatore quel momento o due di silenzio prima dell’arrivo – sadico, molto sadico – del tonfo del corpo caduto, penso sinceramente che chi non vuole Ammaniti regista sia un autentico nemico della bellezza.