Torna Che ci faccio qui, Domenico Iannacone: “Non cerco l’emotività becera, voglio far riflettere”
Se c'è una cosa che sorprende in televisione è l'aritmia, il cambio di passo di un programma rispetto al flusso continuo e ininterrotto dell'infinità di canali consultabili. In questi ultimi anni Domenico Iannacone ha saputo imporre la sua aritmia con uno stile narrativo avulso dal sistema, riflessivo, lento, in controtendenza con quello che i tempi imporrebbero.
Per questo il ritorno di Che ci faccio qui dal 2 dicembre, con quattro puntate speciali in seconda serata su Rai3, è una notizia. Lo è perché conferma la fiducia in lui di Stefano Coletta e perché aggiunge un tassello alla rifioritura della stessa Rai3, rete che ha ritrovato una identità definita, quindi un pubblico di riferimento.
Le quattro puntate speciali di Che ci faccio qui, scritto dallo stesso Iannacone e Luca Cambi e prodotto da Hangar Tv, racconteranno due realtà complesse e difficili del paese, reduci da "una guerra", così la definisce la chiama Iannacone, al quale abbiamo chiesto di raccontarci questa stagione speciale del suo programma.
Questa nuova stagione avrà filone narrativo il racconto delle periferie, che in realtà è sempre stato il fulcro dei tuoi programmi. Qual è l'elemento di novità che lega queste quattro puntate?
Ho scelto due periferie simbolo: Scampia e San Basilio. Sono quelle che dal punto di vista mediatico sono state più bombardate, come avessero subito una guerra, di sangue e fatti criminosi, ma anche mediatica, che ha ulteriormente debilitato qualcosa che era già fragile. A fare da anello di congiunzione tra queste due periferie è inoltre la lotta per un diritto fondamentale alla casa.
Che ci faccio qui riparte dalla seconda serata (tutti i lunedì alle 23.15), mentre nella prima edizione andava in onda nella fascia che precede la prima serata. Credi che il cambio di collocazione gioverà?
L'idea di fare queste quattro puntate mi è stata proposta dal direttore Coletta, in attesa di riprendere con la stagione lunga in primavera. Ma non so se farò una quotidiana, oppure tornerò alla lunghezza di 50 minuti, come accadeva per I Dieci Comandamenti, andando in onda nell'access della domenica. In questo caso l'intenzione è stata quella di andare in onda in una serata in cui ci fosse anche Report, così da rappresentare una sorta di collante. Io credo che i 50 minuti siano un tempo giusto per raccontare una storia, che ha bisogno di un tempo di articolazione minima.
Esiste un momento preciso in cui guardi una delle storie che racconti e pensi che sia completa e pronta ad andare in onda?
A me succede che quando incontro una storia, a volte basta un minuto per capirlo. Ad esempio con Davide Cerullo – ex camorrista, oggi scrittore tradotto anche all’estero – protagonista della puntata su Scampia. Con lui ho subito capito che sarebbe stato al centro di una storia. Ha mostrato di avere una capacità di analisi che va oltre il racconto in sé. Una storia deve funzionare perché è un reagente, ha qualcosa da raccontare sotto forma di esperienza, però deve avere anche un potenziale di analisi e osservazione.
Parli di due periferie diversamente ma massicciamente raccontate dalla Tv e i media in questi anni.
Sì e infatti nel caso di Scampia si tratta di un viaggio che è come se avesse la spinta di essere un dopo Gomorra. Gomorra inteso in tutti i sensi, non solo sotto l'aspetto del racconto mediatico e televisivo. Quando dico Gomorra intendo quel mondo, quella dimensione. Ad oggi niente è più come prima lì, ma uno di Milano immagina Scampia ancora in quella dimensione rappresentata dalla Tv e invece la povertà è ancora più strisciante. Gli affari criminali si sono spostati altrove e sono venuti meno anche gli equilibri precedenti, ci sono le bande, una situazione tribale. Ho avvertito la sensazione di essere arrivato lì dopo un conflitto bellico.
San Basilio a Roma, invece, cosa vuole rappresentare?
San Basilio è un luogo diverso da Scampia, anche per connotazione criminale. Per raccontare questo spazio ho scelto un altro Davide, Davide Proietti, un ragazzo che ha tatuata una svastica ed ha il nonno partigiano, che ha fatto per 30 anni uso di stupefacenti, ma che con un candore del tutto atipico, mi ha permesso di entrare nel suo Romanzo Criminale in una maniera non contaminata.
Negli anni scorsi ti sei imposto come una specie di alieno della Tv, grazie a uno stile di racconto anomalo rispetto a ciò che siamo abituati a vedere. Nella Rai3 rifiorita di Stefano Coletta ti senti più a tuo agio?
Io credo che il tentativo fatto con I Dieci Comandamenti, che all'epoca poteva sembrare straniante, spiazzante rispetto al dinamismo esasperato dei ritmi di racconto televisivo, abbia attecchito. Questo lo vedo in tanti piccoli programmi che raccontano spaccati, cercando di trovare quel meccanismo narrativo che è legato a una rappresentazione più sedimentata della testimonianza, meno sincopata, meno frenetica. Rai3 secondo me sta facendo questo lavoro di racconto organico della società, io lo avverto. Fino a qualche anno fa in televisione dominava il talk e il racconto sociale non esisteva, se non per gruppi sparpagliati. Nella Tv pubblica il racconto della realtà non era contemplato.
Fare emozionare il pubblico sembra essere diventato l'imperativo categorico della televisione. Quanto conta questo aspetto nella costruzione dei tuoi programmi?
Io non devo spingere all'emotività becera, io devo spingere alla riflessione. Del mio prodotto mi piace che le persone se ne ricordino. Come nel cinema, noi intuiamo se un film funziona il giorno dopo, quando ci svegliamo e capiamo se ci è rimasto qualcosa dentro.
Che ne pensi del lavoro che l'azienda sta facendo su RaiPlay? È una piattaforma su cui è possibile sviluppare dei contenuti che la caratterizzino?
È un lavoro importante, secondo me quella piattaforma va utilizzata e non solo come destinazioni di contenuti già andati in onda. Va usata per la creazione di contenuti.
Che tipologia di contenuti?
Io ad esempio ho molto materiale che non riesco a inserire nei miei documentari per ragioni di tempistiche. Ne ho parlato con la responsabile Elena Capparelli e mi ha detto che possiamo lavorarci. Per me questa piattaforma rappresenta un modo per ampliare, per espandere. Che si tratti di cose nuove o di approfondimenti su un lavoro già fatto.
Pensando a programmi come il tuo che mostrano i luoghi e le persone che cambiano nel tempo, mi viene in mente il materiale d'archivio della Rai. Ricorri spesso ai contenuti conservati dall'azienda?
Le teche Rai sono come una biblioteca che racconta il mondo, un pozzo inesauribile di materiale che ti può portare in tutte le direzioni. Nella puntata su San Basilio sono andato a ripescare materiale video in bianco e nero, utilizzandolo per paragonarlo alle immagini del quartiere di oggi e mostrare come tutto sia rimasto identico, tranne il bianco e nero. Bisogna valorizzare questa enorme risorsa di archivio, sempre di più.
Siamo in periodo di caos per le nomine Rai. Se domani ti proponessero una direzione di rete, ti sentiresti a tuo agio nell'accettarla?
Ogni tanto me lo chiedono. Io credo che fare il direttore sia una cosa molto complicata e alla fine ci sono stati anni in cui quelli che facevano televisione, smettevano di farne nel momento in cui prendevano la direzione. Questo è un peccato. Se mai dovesse accadere una cosa del genere, io la mia idea di televisione ce l'ho, anche perché lavoro a Rai3 da vent'anni. Però dico anche che per fare un lavoro del genere bisogna avere una libertà che non potrebbe mai mancare. Fare il direttore tanto per farlo non è una cosa che mi interessa.
Quando parli di libertà ti riferisci all'invasione di campo della politica in Rai?
Al momento credo ci sia ancora un problema di assestamento politico che non permette alla Tv pubblica di avere una piena autonomia e fare il suo lavoro senza sentire addosso il fiato della politica. Rispetto a realtà televisive europee io credo siamo ancora molto indietro, dobbiamo imparare cosa significhi il concetto di democrazia televisiva.