Maccio Capatonda e “Mario”, antidoti a Barbara D’Urso
Per Maccio Capatonda ci si continua a dividere come tra zemaniani e non. Sul valore del regista persiste infatti l'opposizione tra chi ammette di non riuscire a divertirsi guardando le sue gag, talmente demenziali da essere incomprensibili, e quelli che invece ne riconoscono il valore, giudicando quella demenzialità così volutamente eccessiva da essere letta e presa con serietà. E la questione, per brevità, sta proprio tutta qui.
La seconda serie di Mario, o per meglio dire la terza (l'escamotage è che la seconda sia stata girata solo in vhs per mancanza di budget), segna un progresso indubbio del regista di Vasto, che se un anno fa doveva sfidare lo scetticismo di chi non lo credeva capace di creare una serie andando oltre i video su Youtube, ora si è dovuto misurare con lo svelamento esplicito di una critica a tutto campo del nostro assetto culturale. Sì, uno potrà dire che la derisione sociale sia stata sempre il comune denominatore di quello che Capatonda ha prodotto negli ultimi anni, ma si commetterebbe un errore a pensare che tutti l'abbiano compreso, e accettato. Il pregio e il motivo di un successo di tali dimensioni è forse dovuto anche alla sua capacità di saper nascondere ogni intento educativo e paternalistico. In pratica, nel prendere per il culo tutti, Maccio ha sempre preso per il culo in primis se stesso. E' stato premiato.
Con la seconda, sì vabbeh la terza, stagione di "Mario", l'asticella si alza, nella sua struttura e contenuti sgangherati manifesta il chiaro intento di ridurre il tasso metaforico e tracciare parallelismi con l'ultimo ventennio italiano dall'evidenza imbarazzante: la Micidial, visto il calo di ascolti e le perdite dovute alle imitazioni cinesi (stupendo "Baresi" che diventa "Balesi") capisce che il solo modo per salvarsi è entrare in politica, con propositi apocalittici di controllo della popolazione. C'è bisogno di spiegarla? Questo non vuol dire che Capatonda sia improvvisamente diventato Sabina Guzzanti e abbia fatto una serie antiberlusconiana, ma solo che si è assunto dei rischi, che sia più consapevole dei propri mezzi e che sia conscio di avere tra le mani un giocattolo piuttosto potente.
Il tg-show che il nuovo, smemorato e indecente Mario mette in scena, ricco di culi, lustrini e paillettes, è solo una lieve estremizzazione del viatico attraverso cui l'informazione italiana passa per davvero, in alcuni luoghi della nostra televisione. A dire il contrario è, il più delle volte, proprio chi ritiene Capatonda o "South Park" demenzialità pure senza senso alcuno. La convergenza di cronaca rosa e nera, di gossip e spettacolo, politica e sport in unici enormi e indistinti contenitori televisivi è realtà: dove Mario parla della caduta del finto premier, di uno strambo omicidio e del trailer di Edward mani di astice, in un contenitore pomeridiano della domenica di Canale 5 vengono ospitati la madre di Marco Pantani, Manuela Villa, Matteo Renzi e Nino D'Angelo.
Nessun crimine, per carità, non c'è nemmeno intenzione di perseguire la tendenza italica a ritenere Barbara D'Urso l'origine di tutti i nostri mali. Ma che la sua popolarità abbia praticamente appiattito ogni differenza tra i temi, rendendoli tutti trattabili allo stesso modo, quindi privandoli di distinzione, è un fatto. La similitudine tra le due cose è quindi lampante. Si possono leggere le gag di Capatonda come demenza pura, oppure si può scegliere di accettare che siano semplicemente le cose che guardiamo in televisione, ogni giorno, senza battere ciglio. E quindi a quel punto di fare autocritica, mettersi in discussione ed ammettere che ci siamo complessivamente assuefatti agli eccessi. Ecco perché Mario è uno dei possibili antidoti a Barbara D'Urso. Ecco perché possiamo guardare Domenica Live, ma dovremmo guardare, tutti, pure Mario.