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Il commissario Ricciardi 2

Lino Guanciale: “Il commissario Ricciardi è un personaggio epico, dovremmo ispirarci tutti a lui”

L’attore racconta a Fanpage.it il personaggio della serie da lui interpretato, Il commissario Ricciardi in onda dal 25 gennaio su Rai1: “Agisce con senso epico senza mai rassegnarsi, perché crede che quella sia la cosa giusta da fare e basta”. E sulla Napoli fascista piena di fantasmi: “È l’unica città che si è liberata da sola dai nazisti, questo dobbiamo ricordarcelo sempre”.
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Parlando con Lino Guanciale della sua idea sul commissario Ricciardi, il protagonista della nuova serie di Rai1 in onda dal 25 gennaio per sei episodi, abbiamo compreso che non poteva esserci attore migliore per dare vita al primo grande personaggio nato dal talento letterario di Maurizio de Giovanni. “Siamo partiti dal grande rispetto che abbiamo per il testo” dice Guanciale “conoscendo i libri, ho potuto lavorare sulla prima fascinazione che ho avuto da lettore ed è stata una grande fortuna”.

Le labbra sottili, lo sguardo vitreo e penetrante, così umano: anche l’occhio vuole la sua parte e in una Napoli fumosa e noir, quella in piena epoca fascista, Lino Guanciale si muove etereo, quasi incorporeo come i fantasmi che è in grado di vedere, solo quelli vittima di morte violenta; vittime che cercano una giustizia di cui Ricciardi si fa carico, più come un sacerdote che come uomo della Regia Questura. Guanciale cita, non a caso, il mito di Sisifo: “Lui sa benissimo che portando da solo la pietra sulla schiena in cima alla collina, non riuscirà mai ad evitare che la pietra rotoli di nuovo a terra ed è quindi costretto a ricominciare. Ma lo fa con senso epico, un senso a cui sarebbe bello ispirarsi tutti. Lui non è un uomo che si lascia assuefare dal dolore”.

Ci racconti l’incontro tra Lino Guanciale e il commissario Ricciardi? Come hai scelto questo personaggio? 

Ho conosciuto Ricciardi molto prima di avere il piacere di sapere di essere scelto per il ruolo. Avevo letto uno dei romanzi della serie più tutti i racconti legati alla figura del commissario. Quando è arrivata la notizia, ovviamente ho divorato l’intera serie letteraria. Questo fatto di aver conosciuto Ricciardi ante litteram, passami il termine, la ritengo una grande fortuna perché ho potuto lavorare non sulla costruzione d’attore che riceve l’incarico, ma sulla prima fascinazione da lettore. Ho avuto una grande fortuna. E come succede nel primo imprinting di un lettore che crea la vita del protagonista e tutto quello che si porta appresso, ho fatto così, approcciando al personaggio anche un po’ da ammiratore dello stesso.

Dirige Alessandro D’Alatri da un romanzo – il primo, forse il più iconico e importante – di Maurizio de Giovanni. Quali sono stati i consigli dello scrittore, se ci sono stati, e quali sono state le indicazioni del regista. 

C’è stato un incontro, compatibilmente alle tante necessità di Maurizio, che è un’officina sempre in movimento. C’è stato un contatto personale, anche con i suoi collaboratori più vicini che sono stati sempre accanto a noi sul set. Io e Alessandro D’Alatri siamo sempre partiti dal grande rispetto della scrittura di de Giovanni. Ci abbiamo tenuto a mantenere questo contatto, perché credevamo che fosse la strada giusta per una resa che traducesse le cose scritte in immagini efficaci. Questo significa che bisogna anche sapere adeguare l’originale e veicolarne lo spirito. Sperando che arrivi tutta la volontà che avevamo di restare fedeli a questa traduzione.

Il commissario Ricciardi vede i fantasmi e si tormenta per il dolore che l’uomo è in grado di arrecare a un altro uomo. Come si mette in scena questo sentimento così autentico? 

È una cosa estremamente affascinante, questa confidenza che lui ha con il dolore, che è giornaliera. Di fronte a tutto questo, Ricciardi non impazzisce ma cerca di trovare soluzioni, restituire giustizia agli altri e dare pace a se stesso.

E come ci riesce?

Non assuefandosi mai al dolore, non rassegnandosi mai. Agisce come se fosse il Sisifo del mito di Camus. Lui sa benissimo che portando da solo la sua pietra sulla schiena in cima alla collina, non riuscirà mai ad evitare che la pietra rotoli di nuovo a terra ed è costretto sempre a ricominciare. Ma lo fa con senso epico, un senso a cui sarebbe bello ispirarsi tutti.

Perché?

Perché lui crede che sia la cosa giusta da fare e basta. Affidarsi a questo con la maggiore sobrietà possibile, come è detto già nei romanzi, è la chiave giusta di tutto, ritornando alla messa in scena dei suoi tormenti, perché ti aiuta a raccontare la sua confidenza con il dolore.

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È una serie originale e coraggiosa, non solo perché mette in scena veri e propri fantasmi, ma rievoca le suggestioni del noir in una Napoli fascista che in tv non si vedeva da tempo.

Napoli è l’unica città che si è liberata da sola dai nazisti, ricordiamolo sempre, e ha sviluppato nel corso dei secoli strategie di resistenza e di aperta opposizione. È città piena di paradossi, capace di resistere a qualsiasi forza contraria. Questo consente di guardare a quell’epoca da un punto di vista critico.

A un certo punto, il commissario Ricciardi spiega di essere costretto – dato quello che vede – a fare i conti con Dio. Qual è il tuo rapporto con la spiritualità?

Io ho un rapporto da curioso. Non sono un credente, ma rispetto moltissimo chi ha fede. Semplicemente, rilevando di non averla, non abuso di cose e di titoli di cui non posso fregiarmi. Ma affronto tutto questo con la massima curiosità possibile, la stessa che ha Ricciardi.

Che reazione ti aspetti dal pubblico?

Quello che mi aspetto che venga colto da parte degli spettatori è questo sentimento di relatività per cui il potere cambia, muta la faccia e mutano i suoi modi, ma gli uomini restano e devono elaborare di volta in volta dei modi nuovi per restare al mondo. Mi auguro che accada quello che è successo anche a me: tra il bianco e il nero degli schieramenti, ci sono varie sfumature di grigio che ineriscono le situazioni umane.

Non si tratta di politica, quindi. 

Io sono un antifascista convinto e no, non parlo di relativizzare le opinioni politiche. Ma Ricciardi è testimone di tante situazioni umane, tante scelte complesse che ci porteranno a chiedere: ma io, al posto suo e a quel tempo, che cosa avrei fatto?

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