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La Tempesta Perfetta, Giorgio Verdelli: “Racconto Vasco Rossi scappando dalla retorica”

Intervista all’autore dello speciale che andrà in onda su Rai1 mercoledì 1 luglio a tre anni di distanza dal Vasco Modena Park, il concerto storico con più di 200mila spettatori. Metà concerto, metà documentario e metà intervista, Verdelli racconta il documentario come un gioco di equilibri: “Bisogna mettere insieme quello che tutti sanno e quello che nessuno sa di una storia”.
A cura di Andrea Parrella
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Mercoledì 1 luglio, a tre anni esatti dal Vasco Modena Park, il concerto epocale del 2017 in cui più di 200mila persone si radunarono per Vasco Rossi, va in onda su Rai 1 La Tempesta Perfetta, un documento esclusivo realizzato da Giorgio Verdelli che racconta, insieme al protagonista, le emozioni di una delle serate più significative per la storia della musica italiana. Una serata evento, il via alle 20.30, che permetterà di rivedere le immagini del concerto (la versione cinematografica è realizzata da Pepsy Romanoff), corredato di una lunga intervista che il giornalista ha fatto al rocker di Zocca e dichiarazioni di volti noti nelle vesti di fan. Abbiamo parlato della serata evento con Giorgio Verdelli, che negli ultimi anni ha saputo raccontare in modo pregevole e delicato molti grandi artisti della musica e della televisione.

Giorgio, che Vasco Rossi viene fuori da "La tempesta perfetta"?

Ci sono molte cose inedite, riguardanti aspetti personali e familiari, ma soprattutto dice una cosa interessante: che bisogna rispettare le regole. Affermazione che sentita da Vasco può sembrare anomala, ma lui la inserisce in un discorso più articolato e lo fa per una ragione precisa: "Io ho sbagliato e quando l'ho fatto ho pagato – dice lui – ma non mi piacciono i furbi, quelli che quando non rispettano le regole vanno a trincerarsi dietro una scusa". E secondo lui quello dei furbi è un problema dell'Italia. 

Come si fa a raccontare Vasco Rossi evitando il rischio di ripetere tutto quello che è stato già detto sul suo conto?

È chiaro che con uno come lui la retorica è sempre in agguato. In genere io mi affido a una massima del regista Alan Pennebaker (autore nel 2005 del documentario su Bob Dylan "No direction home", ndr) il quale ritiene che il segreto di un buon documentario sia mettere insieme quello che tutti sanno e quello che nessuno sa di una storia. Quello che tutti sanno è necessario, va messo per rispettare i fatti. Qualcuno lo definirà scontato, ma io credo che le cose scontate ci vogliano. Lo stesso Vasco mi ha detto di aver provato a non fare Alba Chiara a fine concerto, "ma se non la faccio le persone non vanno via". Ed è così, i suoi concerti sono un rito laico, messe che devono chiudersi con un rito, per natura scontato.

Un anno fa andava in onda "Siamo solo noi", un tuo documentario incentrato proprio su Vasco Rossi. In che modo ‘La Tempesta Perfetta' si differenzia da questo precedente lavoro?

La grande differenza è che in questo caso siamo legati alla scaletta di Vasco Modena Park, l'abbiamo rispettata quasi integralmente, facendo solo piccolissimi cambiamenti di carattere tecnico. Il concerto è quasi integrale e Vasco parla negli assoli. È un contenuto atipico perché non è un concerto, ha dei pezzi di documentario ma non è un documentario ed è anche un'intervista ma non solo.

Vasco Rossi è la rockstar italiana per eccellenza. Secondo te ha piena consapevolezza di questa sua iconicità?

Certo che sì, ma riesce a combinarla con la leggerezza di chi rifiuta ogni forma di idealizzazione. Vasco si definisce "la rivincita dell'uomo comune" e ribadisce la convinzione degli inizi, quando credeva di essere inadatto a questo mestiere. Come dice sempre lui: l'opera d'arte può essere perfetta, non chi la crea. 

Molte volte ultimare prodotti come questo costringe l'autore a sacrificare delle parti, dover preferire una dichiarazione forte a un concetto più complesso. Come ti approcci tu a questa cosa?

Ho dovuto tagliare molte cose per raggiungere la sintesi, ma cerco di salvare capre e cavoli. Ritengo che nel programma ci siano alcune cose più profonde a dispetto di altre che, pur potendo essere più ‘nazionalpopolari', erano meno vere. Adotto sempre questo metodo e ho fatto lo stesso con Pino Daniele ("Il tempo resterà", 2017), cercando di farmi guidare dall'emozione e non dai successi. È chiaro che devo rispettare una logica televisiva, ma non ho avuto alcuna pressione da Rai1 di fare cose ultra popolari. 

Negli ultimi anni ti sei imposto come narratore d'eccellenza della musica e dell'arte in Rai. Perché secondo te artisti di questo calibro si fidano nel raccontarsi completamente a te?

Questo dovremmo chiederlo a loro (sorride, ndr). Diciamo che l'artista si rende conto se lo conosci davvero oppure no, lo capisce da una serie di particolari. Inoltre questo è un lavoro nel quale bisogna crearsi opportunità. Io non faccio parte del circo televisivo, non ho agenti che girano per i corridoi, preferisco confrontarmi con l'artista e rispettare lui e i suoi fan, un elemento di scrittura fondamentale soprattutto per uno come Vasco Rossi. 

Il documentario è un formato di grande successo che negli ultimi anni vive una nuova primavera in TV, vale per l'arte così come per lo sport. Come te lo spieghi?

Anzitutto dico una cosa bieca ma necessaria: il documentario costa meno. Io facevo il varietà, ma ho scelto questa strada perché non mi andava di sottomettermi alle grandi case di produzione. È un formato che ti offre uno sguardo privilegiato e, volendo fare un paragone musicale, è come un concerto unplugged (acustico e non amplificato elettronicamente, ndr), senza sovrastrutture, senti un pezzo così come è nato. Naturalmente se l'artista è bravo, viene bene, altrimenti no. E perché il documentario venga bene, deve vivere in perfetto equilibrio tra informazione ed espressività, tenendo enorme conto dell'aspetto emozionale.

Insomma, non è fondamentale avere lo scoop. 

Molto spesso vedo presentazioni di documentari che gridano ai contenuti esclusivi, ma io rifuggo completamente da questo metodo.

Tu sei tra i fan della prima ora di Vasco Rossi, o rientri nella cerchia di chi lo ha scoperto in dopo?

Entrambe, diciamo che l'ho scoperto due volte. Dal primo momento ho capito che aveva una grandissima forza, mi divertiva molto e apprezzavo molto la scena di Bologna negli anni Settanta. Poi nel 1990, quando sono stato a San Siro, quello che lo ha lanciato nel gotha del rock e della musica italiana, ho compreso la sua enorme capacità di emozionare e creare delle parole alle quali la gente si è attaccata. 

Un nome che non sei ancora riuscito a raccontare come vorresti?

Ce ne sono molti. Vorrei fare una cosa su Giorgio Faletti, così come vorrei occuparmi di Enzo Jannacci, Loredana Bertè. Ho capito che a me piacciono molto gli irregolari, per questo mi piace Vasco. 

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