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Gomorra, la serie italiana che piace perché non è fiction

Questione di definizioni e Sky ci tiene molto a marcare questa differenza, facendo passare l’idea della vicinanza di Gomorra alla serialità americana. Qualità indiscussa, ma quand’è che Sky deciderà di dedicarsi anche qualcosa su cui non si possa costruire un grande evento?
A cura di Andrea Parrella
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Anzitutto chiariamo che secondo l'assunto per il quale le parole sono importanti, i creatori di Gomorra ci tengono a specificare la dicitura "la serie" perché coscienti della galassia che la separa da "la fiction". Non si tratta di una definizione teorica, ma del fatto che dalle parti nostre la fiction viva di una reputazione molto più prossima a quella della soap opera, cosa che naturalmente non fa brand. E' una precisazione importante perché è tra i fattori più evidenti e significativi dell'intera operazione. Gomorra prima di essere una serie televisiva calibrata, opportuna e a tratti anche avvincente, quale si è dimostrata nei primi due episodi, nasce con l'intento di proporsi come l'episodio zero (uno o due) di un'estesa serie di operazioni sulle quali Sky intende apporre il proprio marchio di qualità.

La serie, realizzata con  Cattleya, Fandango e La7, diretta da Stefano Sollima, Francesca Comencini e Claudio Cupellini, racconta dell'inattesa ascesa al potere in un clan di un semplice braccio, un killer (interpretato da Marco D'Amore), che per un insieme di coincidenze si ritrova a guidare d'improvviso gli affari di una famiglia della malavita napoletana. Un racconto diverso e molto più romanzato rispetto alla fortunata opera di Matteo Garrone, se non altro per l'esigenza di appassionare lo spettatore per dodici puntate. Da settimane Sky tappezza i suoi canali, tg e programmi sportivi con il grande evento e ieri mattina i decoder avvertivano invitavano a premere il tasto giallo per la posta in arrivo, ricordandoti dell'inizio di Gomorra. Un raro bombardamento mediatico complice di aver creato un successo ancor prima che questo iniziasse.

E d'altronde conta quella differenza sostanziale con la serialità generica che siamo abituati a vedere in Italia, quella contestatissima (molto spesso a ragione) di Rai e Mediaset. Quello di Sky è senza dubbio un pubblico differente, fatto di adepti più sensibili ed abituati ai prodotti seriali per la tv provenienti dall'estero, che "Un Medico in Famiglia" non lo guarderebbero semplicemente perché su Rai 1 nemmeno più ci passano. E' un confronto che non tiene, agli occhi di molti il rapporto tra Sky e "le altre" è come quello tra un vestito griffato, di ottima qualità perché griffato, anche se non necessariamente di ottima qualità, e un altro che la griffe non ce l'ha. E' su questo punto che viene fuori l'importanza a fini promozionali che Gomorra passi come un prodotto italiano, per potersi prendere la targa di caposcuola e concedersi il lusso di un paragone, almeno negli intenti, nelle spese, nella cura e nella sponsorizzazione, con la serialità statunitense.

Resta la scaltrezza di fondo per farsi comprare all'estero a scatola chiusa, quella che fa orientare verso un nome altisonante e ambientazioni che continueranno ad alimentare la diatriba culturale già sentita su quanto sia giusto o meno rappresentare Napoli e Scampia così come il mondo ha imparato a conoscerle, quanto pesi il rischio di emulazione di chi guarda e quanto sia intellettualmente onesto fare tutto questo ai fini di un profitto economico. Ma televisivamente il punto non è questo. Se Sky vorrà davvero imporsi con autorevolezza ed in senso assoluto come concorrente nel panorama della serialità televisiva e se vorrà convincerci di avere propositi seri ed onesti, dovrà cominciare ad optare per operazioni che abbiano come proposito la sostanza prima dello spot, che non nascano necessariamente come grandi eventi. Una rivoluzione, se ci sarà, si concretizzerà quando verrà meno il bisogno di un nome forte per attrarre pubblico, quando Sky comincerà ad educare la sensibilità dello spettatore italiano più che assecondarla.

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