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Giorgio Tirabassi riparte da “Liberi Tutti”: ‘È un omaggio a Mattia Torre, ma senza retorica’

La nuova serie di RaiPlay, lo stato della Rai, il ricordo di “Boris” e Mattia Torre e la fiction Mediaset di inizio anni Duemila. Giorgio Tirabassi si raccontaa Fanpage.it a poche settimane dall’infarto che ha avuto all’Aquila lo scorso novembre: “Sto benissimo, mi hanno stappato e ora faccio chilometri a piedi come i matti del quartiere”.
A cura di Andrea Parrella
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Nelle ultime settimane Giorgio Tirabassi si è ritrovato, suo malgrado, al centro dell'attenzione pubblica a causa dell'infarto che lo ha colpito lo scorso novembre. Nella logica del pubblico, il ruolo da protagonista in "Liberi Tutti", la nuova serie Rai disponibile su RaiPlay, non poteva che rappresentare il suo ritorno dopo quel malore. Lo incontriamo a Roma, a pochi giorni dall'uscita della serie scritta e diretta da Luca Vendruscolo e Giacomo Ciarrapico, il cui stile di scrittura è diventato un marchio di fabbrica grazie a "Boris". "Mi hanno stappato, sto benissimo", racconta Tirabassi col tono squillante di chi intende ridimensionare l'apprensione nei suoi confronti. "Non fumo più, vado a piedi come i matti del quartiere e faccio chilometri su chilometri, ho un'energia spaventosa e va benissimo così". 

In "Liberi Tutti" sei Michele Venturi, uno spregiudicato avvocato d'affari che viene arrestato perché gli trovano 25 milioni di euro nel portabagagli. Quanto gusto c'è ad interpretare un personaggio che di positivo ha poco o nulla?

Quello è il grande piacere di fare dei personaggi trasgressivi, è una cosa che è capitata anche quando ho partecipato a Boris. Usare il buonismo per trasgredirlo è una cosa che mi diverte molto. La scrittura dei personaggi di "Liberi Tutti" è al servizio della trasgressione di Michele Venturi.

Venturi, per evitare il carcere sconta la pena ai domiciliari dalla ex moglie, che vive in cohousing. Attorno a questa parola gira l'intera serie.

Si tratta di una comune, un contesto di coabitazione dove le regole vengono fatte da un gruppo di persone che decidono come convivere. Tutta una enorme disponibilità degli uni verso gli altri, un interesse quasi maniacale per il chilometro zero e l'alimentazione sana. Un mondo in totale contrasto con quello di Venturi. E infatti la serie è al servizio di un continuo scontro tra eccessi.

Hai citato "Boris". "Liberi Tutti", oltre ai nomi nel cast e a quelli di sceneggiatori e registi, sembra raccogliere in pieno lo spirito che caratterizzava quella pietra miliare della Tv. 

C'è un filo rosso che lega le due serie ed è l'umorismo tipico degli autori. Io l'ho condiviso inizialmente con Mattia Torre, che purtroppo ci ha lasciati troppo presto. Quando lui, Vendruscolo e Ciarrapico pensavano a Boris ne parlavamo insieme, spesso mi venivano a trovare sul set di Distretto di Polizia e io gli raccontavo le cose che accadevano. Mi avevano anche chiesto di fare il ruolo che poi ha fatto Francesco Pannofino (Renè Ferretti, ndr), ma io non potevo.

Il cinismo di Michele Venturi, in fondo, non è poi così diverso da quello di Glauco.

Sono entrambi spiazzanti, ma se quello di Boris era un personaggio sfacciato, senza alcun freno, qui in "Liberi Tutti" Venturi ha bisogno di fare buon viso a cattivo gioco, sennò ritorna in carcere.

Mattia Torre è presente e ricorre in "Liberi Tutti" con una serie di omaggi a lui e ai suoi scritti. A cominciare dal titolo, vero?

"Liberi tutti" era una sua frase tipica. Mattia non era un grandissimo lavoratore, alle riunioni non vedeva l'ora di chiudere tutto quanto prima, pronunciando proprio la frase che dà il titolo alla serie. Anche perché il titolo iniziale era "Il Nido", poi sono passati a "Cohousing", ma a quanto pare per farlo dire agli italiani ci voleva il logopedista, in Rai ci dissero che era "pericolosissimo" chiamarla così.

Questo ricordo esplicito e tenero di Mattia Torre in qualche modo sorprende, perché fa pensare che proprio Boris avrebbe scherzato anche su una cosa del genere.

Omaggiarlo era inevitabile, lo conoscevamo tutti da tantissimo tempo, con Ciarrapico erano amici d'infanzia e lo stesso vale anche per Pietro Sermonti, Sartoretti ecc. Uno dei primi lavori pagati di Mattia fu con me, per uno spettacolo che facemmo a inizio 2000 per una rassegna di giovani autori. Da lì non ci siamo più lasciati. Io credo che sia stato ricordato con la giusta dose di ironia ed evitando la retorica. Così è stato anche quando abbiamo dato l'estremo saluto a Mattia. 

La serie è disponibile su RaiPlay, poi andrà in onda su Rai2. Quando avete iniziato a lavorarci sapevate di realizzare un prodotto per la piattaforma streaming?

Non so se sia stato concepito per RaiPlay, ma piattaforme come questa sono il nostro presente. Credo sia impensabile, oggi, vedere una serie aspettando una settimana per l'episodio successivo. Chi ha modo di vedere le serie ama farlo prendendosi un giorno di ferie, dandosi malato in ufficio. La serialità oggi dà grande libertà di racconto agli autori e questa è una cosa importantissima. Produttori e distributori non interferiscono più, come accadeva un tempo, sul processo produttivo e le piattaforme streaming, ad esempio, agevolano questa logica.

Quindi rispetto a quel mondo su cui Boris ironizzava senza pietà, con un chiaro riferimento alla Rai, la Tv ti sembra cambiata?

La Rai sta indubbiamente facendo grandi progressi in questo senso. Sta avvenendo un cambiamento enorme in termini di approccio e ci sono molte cose interessanti da vedere.

Tu sei stato tra i protagonisti di una stagione importante della serialità italiana, quella che tra fine anni Novanta e inizio Duemila riguardò Mediaset e in particolare Canale 5. Ci vedi qualche similitudine con ciò che accade oggi?

Assolutamente sì. In quegli anni Mediaset proponeva delle cose completamente diverse dalla Rai, dove la serialità era affidata ancora ad attori un po' plasticosi, stile Incantesimo. Al contrario Pietro Valsecchi (la sua Taodue ha prodotto tutte le serie Mediaset di maggior successo, ndr) portò in televisione dei volti cinematografici. "Ultimo" era il frutto di un libro scritto da Maurizio Torrealta, un giornalista che lavorava con Santoro, quindi c'era una forte dose di realismo in quella serie, con ampio spazio ai dettagli sul metodo investigativo di questo capitano di cui non si sapeva nulla. Il risultato fu che l'audience aumentò vertiginosamente e anche "Distretto di polizia" fu pensato in questo modo, con l'appoggio della polizia di Stato e dei casi realmente accaduti. Con quella serie arrivammo a sfiorare i 10 milioni di telespettatori. Non so se Pietro Valsecchi abbia rivoluzionato la serialità, ma sicuramente ne ha rinnovato la percezione. L'Italia si fermava.

Cos'altro hai in cantiere?

Sono molto contento di aver fatto il mio film da regista, uscito in estate e senza la migliore risonanza, che arriverà a gennaio su Sky. Prima o poi invece spero esca il film di Gabriele Mainetti ("Freaks out", ndr) molto atteso e di cui non si conosce ancora la data. Di recente ho fatto anche un film con Goran Paskaljevic, che potrebbe uscire in primavera, dopodiché aspetto con molta calma la seconda stagione di "Liberi Tutti". E poi basta, non ho proprio questa smania di lavorare, alcuni colleghi non riescono a stare a casa, io invece ho anche altri interessi e sto bene pure così.

La prima regola che Michele Venturi impara nella comune è che si è liberi di mandare a fare in culo chiunque. Posto che tu possa farlo con chi te lo sta chiedendo: ti ha infastidito l'eccesso di attenzione sulla notizia del malore che hai avuto?

Se le persone ti conoscono non puoi evitarlo. Per fortuna non ho più i genitori in vita, perché sennò con una notizia data così mi morivano sul colpo. Avrei preferito non uscisse nulla, però è la verità, ho avuto un infarto e devo ringraziare ancora l'equipaggio del 118 che mi ha salvato la vita. Mi hanno portato ad Avezzano dove c'è un UTIC straordinaria e dei medici fantastici.

In fondo l'apprensione delle persone è una forma di affetto.

Può sembrare una contraddizione, ma io non amo molto essere al centro dell'attenzione, però mi fa molto piacere ricevere grande affetto dalle persone che mi incontrano in strada. Avrei preferito non uscisse nulla, ma poi io ho spento il telefono, sto poco sui social e cerco di difendermi: credo che il privato non debba essere pubblico.

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