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Francesco Montanari: “Con ‘Il Cacciatore’ diciamo che il bene è pop, proprio come il male”

L’attore romano racconta a Fanpage.it perché la serie tv in onda su Rai2 dal 14 febbraio, possa rappresentare un momento di rottura rispetto alla tradizione delle fiction televisive Rai: “Siamo abituati a vedere le storie di bene come storie di buonismo, ma non è così. Il bene è pop come lo è il male”.
A cura di Andrea Parrella
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Dal 14 marzo, su Rai2, andrà in onda "Il Cacciatore", tra i prodotti più attesi dell'anno per la rete. Diretta da Stefano Lodovichi e Davide Marengo e tratta dal romanzo di Alfonso Sabella "Il Cacciatore di Mafiosi", narra delle vicende di Saverio Barone, un magistrato ingaggiato nel pool antimafia di Palermo dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio. È tra i titoli più attesi della stagione e, pur non essendo andato in onda, ha già avuto un riconoscimento internazionale, essendo l’unica serie tv italiana selezionata in Concorso a Cannes nell’ambito del primo festival dedicato alle serie internazionali, Canneseries. 

Una serie tv, appunto, come ha raccontato a Fanpage.it il protagonista Francesco Montanari, che ha presentato "Il Cacciatore" come un prodotto di rottura rispetto alla tradizione delle fiction, pur di grande successo, prodotto dalla Rai.

E soprattutto non si tratta "solo" di una storia antimafia, è così?

La lotta alla mafia è una macrocontesto per raccontare una storia umana, è come Breaking Bad in cui la droga è un pretesto per raccontare l’evoluzione di un personaggio che, dall’essere chiuso in se stesso e obbligato a fare determinate scelte, si è liberato ed è arrivato ad appagamento. Quella de “Il Cacciatore” è una storia antimafia, ma una storia umana, perché racconta di un personaggio che finisce casualmente nella lotta alla mafia e ne diventa ossessionato, ma semplicemente perché vuole auto affermarsi.

Montanari, è questo diverso punto di osservazione a fare de "Il Cacciatore" una serie tv e non una fiction?

È importante dire che si tratta di una serie e non di una fiction, che con tutto il rispetto per la fiction, ragiona per stereotipi, e la serie per umanità. Qui abbiamo dei personaggi fallibili, sia buoni che cattivi, e lui arriva per caso a finire in questo mondo, in questo vortice in cui diventa ossessionato dal lavoro, portando a casa risultati importantissimi e sacrificando anche la vita privata, ma sempre per un discorso di autoaffermazione a narcisismo.

Tra gli obiettivi della serie c'è quello di raccontare il bene in modo seducente, renderlo "pop". Cosa significa esattamente?

Noi in Italia, di serie importanti ne abbiamo avute alcune: “Romanzo Criminale”, “Gomorra” e anche “Il capo dei capi”. Prodotti come questi sono pop perché fondamentalmente hanno un linguaggio contemporaneo e competitivo a livello internazionale, ma soprattutto raccontano delle umanità ed è questo a renderle “credibili”. Non sono le pistole o il delirio di onnipotenza di questi personaggi a empatizzare, ma perché “Romanzo Criminale” racconta otto ragazzi del muretto che invece di sprecare le loro giornate investono le loro energie in una via criminale, che chiaramente io non condivido. Il Libanese vuole essere perdonato da sua mamma. Stessa cosa vale per Saverio Barone, che per fortuna sta dall’altra parte della barricata, però anche lui si troverà a fare scelte non sempre politically correct. È per quello è pop. Il tutto è girato con dei riferimenti assolutamente contemporanei, come quelli a Narcos, alla Marvel, tutta una sorta di scelte stilistiche figlie della mia generazione. E’ assolutamente un prodotto competitivo a livello internazionale.

Quanto è importante che una serie così vada in onda in Rai?  

Questo è fondamentale non solo per me, ma per tutti gli italiani. Rai2 è un canale in cui sta prendendo sempre più forma la serialità di questo tipo e ben venga, perché anche per la Rai significa riavvicinare un gruppo giovanile al suo canale. Poi è giusto che anche Rai1 faccia le sue le valide fiction, le ho fatte anche io e spero di continuare a farne. Bisogna sempre conservare e progredire, quindi è bello avere tutti e due.

Nell'era dell'onestà che prevale sul merito, la serie racconta di Saverio Barone, non un campione di moralità ma un grande talento, ambizioso, al servizio del bene.

È assolutamente così, lui è un grandissimo indagatore e cacciatore, un grandissimo stratega e uomo determinato. In una delle prime scene al procuratore capo Andrea Elia – l’equivalente di Caselli nel pool antimafia – che lo manda a chiamare, Barone precisa che il suo lavoro non abbia nulla a che fare con la vocazione. La risposta di Elia è che a lui non interessa la vocazione, ma proprio l’ambizione, perché è quello che porta i risultati.

La serie è calata nella profonda Sicilia. Da romano hai avuto a che fare con un dialetto molto specifico. Uno stimolo o un ostacolo?

Entrambi, come sempre lo stimolo è superare l'ostacolo. Abbiamo avuto la fortuna di lavorare con un grandissimo attore, Enrico Roccaforte, che ci ha fatto da coach e che ha fatto un lavoro eccezionale sia con attori siciliani e non. Questo perché nel cast ci sono anche attori come Francesco Foti, che da catanese ha un accento molto differente dal palermitano. E posso dire che alle volte è più facile entrare in quell’orecchio dall’esterno, perché quella cadenza è molto forte e se sei tabula rasa è come se studiassi una lingua nuova come l’inglese.

Il pubblico si è spesso dimostrato particolarmente suscettibile all'idea che attori recitino in dialetti che non gli appartengono. Colleghi come Marinelli e Argentero, sono stati "diversamente" criticati di recente. Non temi le critiche?

Le critiche ci saranno sempre. Io purtroppo non ho visto né il “Sirene” né “Principe Libero”, ho sentito polemiche ma non posso fare commenti. Il punto è che il madrelingua che va ad ascoltare questa cosa parte subito da un pregiudizio, indipendentemente dall’apertura mentale, anch’io parto prevenuto quando ascolto un attore che non è romano e fa il romano. Il pregiudizio è fammi vedere se riesci ad essere credibile. Ma anche se sei la persona più aperta del mondo quella cosa ce l’hai. Detto ciò io credo che l’importanza di studiare a fondo un dialetto quando c’è da riprodurre un dialetto, sia il fatto che il dialetto corrisponde a una mentalità e quindi a un’emotività, quindi a una cultura. Magari nei prodotti di Argentero e Marinelli le produzioni hanno scelto di non dare un imprinting dialettale, perché c’è anche questo da considerare. Non credo che loro si siano tirati indietro nello studio, conoscendoli entrambi la vedo altamente improbabile. Avrebbero fatto un ottimo lavoro entrambi. Molto spesso è anche la rete che dice di parlare un italiano neutro e dunque si fa così.

Dopo "Romanzo Criminale", capostipite delle serie tv in Italia, sei protagonista di un altro prodotto di rottura. Che aspettative hai?

Io ho sensazioni molto positive rispetto all’effetto della serie e spero che il pubblico confermerà queste impressioni. Chiaramente è un caso che io venga preso dopo molti provini (sei per Romanzo Criminale e sei Il Cacciatore) e che sia stato frontman di entrambi i prodotti. Spero che Il Cacciatore abbia il successo che merita perché lo sarebbe per tutti, compresa la Rai, perché, lo ripeto, sarebbe un’importantissima novità: dimostreremmo che il bene può essere cool come il male. Quando ho letto la sceneggiatura e ho visto i colleghi, ho detto “qui si fa un prodotto della madonna”.

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