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Daniele Vicari racconta “Prima che la notte”: ‘La storia di Pippo Fava ci parla di futuro’

Il regista del film per la tv con Fabrizio Gifuni che andrà in onda su Rai 1 il 23 maggio, ci racconta cosa significa provare a svelare la grandezza di un personaggio come Pippo Fava, giornalista e intellettuale siciliano ammazzato da Cosa Nostra nel 1984: “Il film comincia con la sua uccisione, non è un’opera sulla morte, ma sulla vita”.
A cura di Andrea Parrella
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Il 23 maggio 2018 andrà in onda, su Rai 1, il film per la tv "Prima che la Notte". È la storia di Pippo Fava, giornalista siciliano assassinato per mano di Cosa Nostra nel 1984. Una storia che nei dettagli e nei risvolti è tristemente simile a quella di altri giornalisti, da Impastato a Siani, diventati martiri per la sola colpa di aver svolto il proprio lavoro con talento, passione e abnegazione. A quasi 35 anni dall'uccisione di Fava, il servizio pubblico sceglie la giornata della legalità per la messa in onda di questo film molto atteso. Ne abbiamo parlato con il regista e co-sceneggiatore Daniele Vicari, che lavora per la prima volta in tv dirigendo Fabrizio Gifuni, Dario Aita, Lorenza Indovina ed altri componenti di un cast di grande rilievo.

Vicari, che storia deve aspettarsi il pubblico di Rai 1?

Una storia che riguarda il futuro, non il passato. Perché la straordinaria impresa di Fava e dei suoi “carusi”, ovvero i ragazzi di cui si è circondato per realizzare due imprese giornalistiche fenomenali, parla di futuro. Fava era un uomo molto particolare, non semplicemente un giornalista antimafia, era un intellettuale, artista, pittore, narratore e sceneggiatore, nonché drammaturgo. Ha portato nel giornalismo questa sua visione artistica spiazzante, che ha formato un’intera generazione di giornalisti, i quali hanno continuato a fare quello che Fava gli aveva insegnato. Per cui l’uccisione di Fava è anche un sacrificio tragicamente inutile perché non ha raggiunto il suo obiettivo. Oggi noi parliamo di Fava perché è un uomo vivo, con le sue opere ci ha insegnato e ci sta insegnando a guardare il futuro. Il film parla di questo, anziché finire con l'uccisione di Fava, si apre con la scena del suo assassinio.

Molte opere su vittime di criminalità organizzata, specie in tv, rischiano di essere caratterizzate dalla santificazione del personaggio. In che modo avete tentato di evitare questo spauracchio?

In realtà la rappresentazione dei fenomeni criminali in Italia, soprattutto di quelli mafiosi, si muove tra due estremi uguali e contrari. Il primo è appunto la santificazione dell’eroe (con tutto il rispetto per chi viene ucciso, non dimentichiamolo) e dall’altra parte l’apologia del carnefice. In mezzo c’è la vita e il cinema deve fare questo, deve raccontare la vita. Era quello che Fava cercava di insegnare ai suoi allievi. Persone che erano in cerca di un futuro e lui, che aveva deciso a oltre 50 anni di restituire alla società i successi ottenuti, è tornato a Catania perché ha sentito il desiderio di restituire qualcosa. È una cosa che fanno in pochi. Questa restituzione ha creato una generazione di giornalisti che sono ancora qui a farlo, a grandissimi livelli. Quindi il racconto di Fava è un racconto di vita. Non un film sulla morte, ma un film sulla vita.

"Un film per la tv". Credi che il prodotto sarebbe stato diverso se destinato, ad esempio, alle sale cinematografiche?

Io credo che un film sia un film, un racconto sintetico di qualcosa che può essere grande o piccolo, ma che comunque deve avere senso. E questo può avvenire in televisione, nelle sale cinematografiche, attraverso i cellulari, ma non cambia la natura dell’opera. Non c’è dubbio che cambia la percezione dello spettatore. Non avendo fatto mai un film per la tv, mi sono stupito dello stupore di persone che dicevano ‘Ah ma questo è cinema’. Questa cosa non ha niente a che vedere con la televisione, ma col “malcostume” che fa sì che per la televisione i registi, gli autori, facciano opere minori rispetto a quelle che farebbero per il cinema. E questa è una cosa inaccettabile, ciascuno faccia ciò che vuole nella vita, ma per me non è accettabile. 

Insomma, la massima per la quale il mezzo è il messaggio non trova conferme. 

Io credo che questa di McLuhan sia la frase più falsa del secolo, o meglio che lui non intendesse esattamente questo. Per la tv si possono fare grandissime opere che nulla hanno da invidiare a opere cinematografiche di grande valore. David Lynch negli anni '90 realizza una serie ("Twin Peaks", ndr) che ancora oggi è punto di riferimento per cineasti e pubblico di tutto il mondo, un’opera immortale, per la televisione. "Breaking Bad", con tutta la ripetitività necessaria e dovuta alla serialità, è un’opera straordinaria. Il "Sandokan" di Sollima padre è un’opera immortale, perché racconta il desiderio di libertà di un popolo nella maniera più impensabile e imprevedibile. Insomma, questo è un falso problema. 

Se guardiamo al modo in cui Fava faceva giornalismo, colto, fantasioso, artistico, si possono trovare analogie con il modo in cui un regista si avvicina al racconto della realtà?

Io sostengo che non esista solo un’etica del giornalismo, ma anche un’etica del cineasta. Deve mettersi in gioco, anche quando racconta una storia che entra in un filone che è a rischio di banalizzazione. Io penso che fare cinema, come fare giornalismo, è prima di tutto un enorme privilegio. Sono pochissime le persone che riescono a raggiungere obiettivi anche alti facendo giornalismo e cinema. Quando si ha questo privilegio, il privilegio spesso impone di non sprecare le occasioni. Se tu devi realizzare un giornale, farlo bene o male costa la stessa fatica, e forse gli stessi soldi. La differenza sta non solo nel tuo talento, ma nella tua capacità di impegnare fino in fondo tutte le tue energie. A maggior ragione questo discorso vale per il cinema, perché il cinema ha una grandissima necessità di energia. Se un regista non mette tutta la sua energia in un film, lo spettatore per quale motivo dovrebbe vederlo? Se qualcuno ti mette a disposizione alcuni milioni per fare un film, non puoi sprecare l’occasione. Anche perché è un’occasione che non coinvolge solo te, ha a che fare con la società, è una questione eminentemente politica. Buttare dalla finestra milioni perché fai svogliatamente questo film, è un peccato mortale. Per il giornalismo vale esattamente lo stesso discorso.

Il film nasce dal racconto del figlio e di uno storico collaboratore di Pippo Fava, che avevano vissuto l'uomo in prima persona. 

La sceneggiatura è tratta dall'omonimo libro di Claudio Fava e Michele Gambino che raccontano Pippo Fava dai due punti di vista del figlio e dell'allievo (insieme a Michela Zapelli, Fava e Gambino sono gli altri co-sceneggiatori). Ma per certi versi a me questa cosa non bastava, perché io avevo loro due. Quello che ne è emerso è vita vissuta, perché noi alla fine di quella sceneggiatura abbiamo tirato fuori l’anima e il sangue della loro esperienza. È una sceneggiatura non ha nulla di formale o meccanico.

Parliamo dell'aspetto linguistico, che mi pare molto curato in "Prima che la notte". In che modo avete lavorato al perfezionamento di questo fattore? 

Il lavoro sulla lingua dei personaggi è stato fatto dagli attori. Fabrizio Gifuni si è calato nel personaggio di Fava a partire dalla sua lingua madre, quella che si parla a Palazzolo Acreide (provincia di Siracusa), nemmeno in Sicilia. Come dice Fabrizio in tutti gli incontri che abbiamo fatto, in qualche modo racconta la forma mentis di queste persone, il modo in cui si sviluppano i pensieri di queste persone, per cui questa inflessione dialettale, unita a un italiano molto forbito come quello parlato da Fava, ha creato una mescolanza meravigliosa che è qualcosa di fortemente caratterizzante la storia e la vicenda umana. Quindi non è un elemento formale.

La fedeltà e aderenza ai dialetti, d'altronde, è un aspetto sempre più determinante per la credibilità di un prodotto cinematografico o seriale.

Il dialetto utilizzato al cinema è quasi sempre un compromesso. Nel caso di serie di successo serve per allontanare i personaggi da te spettatore, farli sentire come qualcosa di difforme da te; oppure, al contrario, farteli sentire molto vicine. Quindi il dialetto, nei film e nelle serie tv, è parte integrante del linguaggio cinematografico, non è una cosa esteriore. Poi è vero che ci sono film per la tv in cui viene rappresentata la parte buffa dei dialetti, ma quelle sono operazioni che lasciano il tempo che trovano e anche il telespettatore meno avvertito e attento a queste cose, le prende come una mera finzione.

C'è una frase, in conclusione, che ho osato estrapolare da questa lunga chiacchierata con Daniele Vicari, e che mi pare capace di sintetizzare il suo pensiero su Pippo Fava. Lui mi perdonerà se sono stato riduttivo:

Pippo Fava è uno di quegli straordinari giornalisti che ha fatto la storia del giornalismo italiano non perché è stato ammazzato come un cane da dei bastardi che gli hanno sparato, ma perché ha lasciato a noi delle cose straordinarie da leggere.

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