Privatizzare il carcere è uno sbaglio, ve lo dice anche Orange is the New Black
"Privatizzare le carceri è una merda". Ci aiutiamo con il solito tweet di J-Ax per sintetizzare un concetto: la quarta stagione di Orange is the new black è straordinaria ed è la più dolorosa, non per questo la meno divertente. Disponibile dal 17 giugno su Netflix con tutti e 13 gli episodi, la serie rende chiara la volontà di Jenji Kohan di mischiare all'esperienza reale di Piper Kerman, autrice della biografia da cui la serie è tratta, un lavoro corale che aiuti a capire meglio le dinamiche che si muovono tra le detenute, denunciando lo stato delle cose nei penitenziari americani.
Non è più Piper Chapman ad avere il centro della scena, se questo era apparso ben chiaro nel corso della terza stagione con l'uscita di scena dei personaggi della sua vita privata, dalla quarta stagione la sua rapidissima ascesa e caduta nel mondo delle "gangsta" della prigione ce lo ha dimostrato. Le storie delle detenute si sviluppano nella forma più tragica e drammatica possibile ed è il delicato passaggio della prigione da pubblica a privata a rappresentare la linea di rottura. Il sistema cade in mille e più pezzi e ormai lo spettatore si ritrova sinergicamente spalle al muro con le detenute.
Non è un semplice show, appare più un vero e proprio movimento. Si fa politica a raccontare le storie fuori e dentro il penitenziario di minima sicurezza di Litchfield. E si fa molta autocritica. Jenji Kohan, losangelina di origini tedesche, cresciuta in una famiglia di ebrei, non fa sconti allo stato attuale degli States: società razzista, distratta e inabile al più basilare dei principi del vivere civile, consumista, frivola, perbenista. E assassina. Perfetto, a questo proposito, lo sketch in cui Occhi Pazzi controlla la spesa all'uscita di un cliente del supermercato: tra succhi di frutta e cose da mangiare, spicca anche un fucile d'assalto.
È uno show figlio del suo tempo, anche nei momenti d'evasione. È uno show che sa il fatto suo, che si fa portavoce della rivoluzione di Netflix, e lascia rammaricare le carcerate perché fuori si stanno perdendo il meglio della tv di sempre. E via con le citazioni delle serie tv, tutte di proprietà di altri network: da "Breaking Bad" a "Sherlock" fino a quella serie in cui le persone non fanno altro che ammazzare gli zombie (parla di "The Walking Dead", ovviamente).
Un finale scioccante
Un colpo al cuore dei telespettatori è rappresentato dal finale. Una sequenza improvvisa ma ampiamente anticipata dal clima sempre più pesante in cui si immerge la quarta stagione di "Orange is the new black", la migliore dell'intero lotto. È un crescendo fino alle ultime due puntate in cui la tensione tra le detenute e le guardie composte dagli ex veterani di guerra sale alle stelle. E i veterani di guerra nel penitenziario ce li hanno voluti proprio quelli della MCC, la società privata che gestisce Litchfield e che, con la loro assunzione, ha potuto godere di una serie di benefici fiscali senza pensare alla loro totale inadeguatezza nella gestione di un carcere femminile di minima sicurezza.
È la ricetta perfetta per un disastro annunciato. Puntata dopo puntata lo spettatore, favorito dalla possibilità di guardare in binge-watching l'intera stagione, si rende conto di come ogni azione dall'alto abbia portato all'inevitabile svolta finale. Di cosa è capace l'essere umano? Quanto più pensiamo di tenere sotto controllo una situazione e le sue conseguenze, tanto più ci rendiamo conto che il vero senso di tutto ci sfugge. Guardiamo in faccia la nostra irrilevanza. Quello che ne consegue è terribile. Ecco. La quarta stagione di "Orange is the new black" mostra le unghie attraverso una serie di riflessioni cui lo spettatore attivo è obbligato. È il miglior prodotto presente nel catalogo di Netflix, più di "House of Cards" (che in Italia è ancora un'esclusiva Sky), più di "Marco Polo" o di "Narcos". Perché parla degli ultimi, e lo fa senza sconti.