Paolo Bosisio: “Il Collegio non è Tv che insegna, ma un passatempo”
Al Collegio l'ultima parola spetta a lui e Paolo Bosisio da cinque edizioni esercita la sua autorità di preside in modo inflessibile, tant'è che i milioni di telespettatori appassionati del programma faticano ormai a distinguere il personaggio dalla persona, che è un po' il segreto del docureality di Rai2. Ed è quello che abbiamo chiesto proprio a Paolo Bosisio, che nella terza puntata de Il Collegio ha lasciato temporaneamente il suo posto alla prof Petolicchio, non prima di cacciare via l'indomita Aurora Morabito, che lo ha gentilmente mandato a quel paese.
Lei è, ormai da 5 edizioni, l'emblema assoluto di rigore e inflessibilità al Collegio. Incarna un ruolo in modo estremamente credibile, oppure se Paolo Bosisio fosse davvero un preside si comporterebbe esattamente così?
Sono stato preside in un liceo per dodici anni negli anni Ottanta e un poco della mia esperienza mi è servita per costruire quello che è un personaggio e non la fotocopia di me stesso. Io recito il Preside e non sono il preside! Quando lo ero, utilizzavo criteri di disciplina abbastanza stretti da garantire il mantenimento da parte degli studenti di comportamenti educati e proficui negli studi. Applicavo i medesimi criteri ai colleghi insegnanti ai quali chiedevo impegno, puntualità, serietà. Io ero il primo ad arrivare a scuola e sulla porta salutavo i colleghi che entravano ovviamente attenti a non ritardare.
D'altronde recitare significa impersonare, fingere in una maniera molto onesta di essere qualcuno senza pretendere che lo spettatore creda quella sia la realtà. Perché, secondo lei, tutti si chiedono se quello che succede al Collegio sia finto oppure no?
I comportamenti che i "collegiali" mantegono è frequentemente così maleducato da far pensare che si tratti di una finzione. Invece si tratta di un reality, e quindi ciò che si vede corrisponde a ciò che è accaduto veramente, senza una regia preventiva. E' stupefacente che parecchi fra gli adulti che mi fermano incontrandomi per strada, si rivolgano a me come se io fossi davvero un preside in grado di dare consigli su questioni scolastiche inerenti i loro figli. Per fortuna in questo casi mi soccorre la lunga esperienza maturata come uomo di scuola, oltre che come preside, come professore universitario per 30 anni.
Il programma è diventato un fenomeno generazionale, che sensazione le dà sapere di essere parte del corpo docenti che è, di fatto, il solo elemento ricorrente e la colonna portante dell'unico programma TV visto in massa dai giovani?
Il successo costante e crescente della trasmissione ha significato per me ottenere una visibilità e una popolarità che nella mia vita di lavoro, pur coronata da successi, non avevo certo avuto. E non nascondo che ciò produca sensazioni gradevoli. Credo anche di avere affinato, edizione dopo edizione, la mia interpretazione del personaggio, che tiene conto anche della diversa collocazione cronologica della serie (la prima fu ambientata nel 1960 e l'ultima nel '92).
Nella terza puntata si assenterà per alcuni giorni, a sostituirla ci sarà la professoressa Petolicchio. Riuscirà ad essere sufficientemente severa per fare le sue veci?
Questo lo vedremo proprio nella terza puntata. Io ero "assente" giustificato e quindi non sono in grado di fornire indiscrezioni. La professoressa Petolicchio, oltre a essere una docente di ottimo livello, è persona esperta, seria e consapevole. Non avrei potuto lasciare il Collegio in mani migliori.
Petolicchio, Maggi, Raina e molti altri docenti sono professori tutti i giorni, mentre lei, pur facendo parte del mondo accademico, ha maggiore familiarità con la recitazione. Quanto questa differenza incide sulle vostre esperienze?
Credo incida parecchio come è naturale. Ma alcuni colleghi hanno dimostrato una grande attitudine al lavoro televisivo e si muovono con facilità e naturalezza davanti alle telecamere.
Le è mai capitato di rimproverare un ragazzo o una ragazza e sentirsi successivamente in colpa per l'eccessiva durezza? Se sì, in che caso?
Assolutamente no. Le mie reazioni, seppure concordate con il responsabile del programma, sono tutte naturali e a braccio, spontanee e calibrate sulle misure del personaggio che interpreto.
Quest'anno Il Collegio è ambientato in un tempo a noi molto vicino. Lei cosa ricorda di quel 1992?
Fu un anno per molti aspetti indimenticabile. La strage di Capaci, l'omicidio Borsellino, l'apertura della stagione giudiziaria detta "mani pulite", ma anche la fine dichiarata dell'Unione Sovietica. Fatti di capitale rilevanza storica, cui in quell'anno sono seguiti molti altri ancora.
Ha trovato gli adolescenti cambiati dal Covid?
No, nessuna consapevolezza aggiuntiva. Anche se per forza di cose sul set non se ne poteva parlare (trovandosi nel 1992). E io fuori dal set non incontro i ragazzi.
Da esperto saprà riconoscere benissimo un adolescente naturale e uno che invece tende a simulare e recitare una parte. Ce n'erano anche in questa edizione?
Ce ne sono sempre e la presenza di coloro che arrivano con in mente un ruolino da mettere in piedi per essere più visibili cresce di anno in anno come è ovvio. Ma dopo i primissimi giorni i ruolini precostituiti esplodono e gli aspiranti attori ne perdono il controllo. Come è altrettanto ovvio.
Quando ha capito realmente che Il Collegio era un successo che era andato al di là di ogni pronostico?
Quando ho visto le prime puntate della prima serie. Ma ogni serie ci riserva sorprese positive in tal senso, e quest'anno i dati non smentiscono per ora il trend di ascesa.
Sebbene stia avendo enorme riscontro, c'è chi crede che Il Collegio abbia ormai perso la sua cifra di novità e sia destinato ad essere una ripetizione di se stesso, solo meno autentica. Anche lei pensa che il programma abbia dato già tutto e ora si goda una rendita?
Non direi: l'entusiasmo con cui i giovani a milioni ci seguono significa che il programma è vivo. A ogni puntata cogliamo l'attesa dei nostri spettatori e l'impazienza di conoscere gli sviluppi. Lunga vita al Collegio!
Una volta c'era il maestro Manzi. Oggi che il sistema scolastico è in crisi ritiene che Il Collegio possa essere la base di un progetto televisivo più ampio di insegnamento per il pubblico più giovane?
Francamente no. Il maestro Manzi, indimenticabile per me, svolgeva un compito di grande importanza sociale a quel tempo. Oggi per cambiare la situazione occorrerebbe una consapevolezza nelle famiglie che assolutamente non vedo. I ragazzi sono il frutto del lavoro familiare e, solo in seguito, di quello che si svolge a scuola. Oggi genitori e docenti appartengono alla generazione post-sessantottina e in molti casi non hanno acquisito dalle loro famiglie e a scuola le consapevolezze necessarie a cercare di far crescere i giovani verso un futuro migliore. Sono molto pessimista su questo tema e credo che il Collegio costituisca solo un passatempo (magari meno sciocco di altri) per i ragazzi che guardano ai loro coetanei nel video come se fossero animaletti di uno zoo che è divertente visitare, salvo uscirne e riprendere la propria vita senza un briciolo di cambiamento. Non manca qualche eccezione, naturalmente, ma le eccezioni non fanno la regola.
Cosa aggiungerebbe lei al programma per renderlo ancora più efficace? C'è, a suo modo di vedere, qualche limite che si può ancora superare?
Il programma è guidato con grande sapienza da un autore, Luca Busso, al quale va tutta la mia ammirazione per le sue capacità creative. Lavorare con lui è un lusso e un piacere che cresce di anno in anno.