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Mario Giordano: “Il monopattino serve a farsi riconoscere, ma Fuori dal Coro non è solo quello”

Il giornalista parla del successo di Fuori dal Coro: “Non dipende solo dai miei siparietti”, racconta in un’intervista a Fanpage.it, sottolineando come la nuova linea di Rete4 abbia rotto la storica egemonia dei talk di sinistra: “Ci si è sempre chiesti come mai non riuscisse ad imporsi un tipo di talk alternativo alla tradizione di Santoro e Lerner. C’era una fetta di mondo che non si riconosceva in quei talk show lì”.
A cura di Andrea Parrella
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Come si definisce, oggi, il successo di un programma televisivo? Bastano gli ascolti o è indispensabile che la Tv esca dalla Tv per essere rielaborata sui social, masticata e risputata in forma di meme e brevi video che diventano tormentoni? Se c'è un programma che beneficia di entrambi i riscontri, quello è Fuori dal Coro, talk show politico e d'attualità in onda da due anni su Rete4, divenuto un fenomeno meritevole di osservazione. Soprattutto per la consacrazione del conduttore, Mario Giordano, che sembra aver trovato la sua collocazione definitiva sul piccolo schermo in un programma che ha contribuito a sfatare uno storico tabù della televisione italiana, rendendo possibile un talk show politico di destra. Parola, destra, che il giornalista Mediaset preferisce non pronunciare in questa intervista rilasciata a Fanpage.it, pur riconoscendo che qualcosa di nuovo stia avvenendo.

Giordano, il suo programma è atterrato nella serata dei talk show per eccellenza, colmando subito il gap di ascolti e spesso vincendo. Come si spiega questo riscontro?

Sinceramente è difficile dirlo, io stesso sono impressionato. Il martedì è tradizionalmente la sera dell'informazione Rai, lo è stato con Ballarò per anni, poi Floris si è spostato a La7 e ora c'è Cartabianca. Noi siamo partiti solo l'anno scorso, tra l'altro iniziando dal mercoledì e spostandoci varie volte. Solo dall'inizio di quest'anno siamo stabili. Il dato è sorprendente, posso dire quello che ho cercato di fare, ovvero non aggiungere un altro talk agli altri talk, ma tentare un racconto diverso della realtà. Ovviamente da un punto di vista che non finge di essere imparziale, è il mio sguardo con tutti i difetti e i limiti, ma c'è anche l'onestà intellettuale che credo di aver dimostrato in tanti anni di lavoro.

Che peso hanno, su questo successo, i suoi siparietti virali?

Ovviamente la trasmissione viene sempre ridotta a Giordano che fa l'ingresso iniziale gridando. Cosa che rivendico, perché per fare televisione bisogna farsi riconoscere. Giuliano Ferrara un tempo usciva dal bidone dell'immondizia e io ho questo mio escamotage, però credo che il valore di Fuori dal Coro non sia nella trovata iniziale, ma nella quantità di servizi con i quali proviamo a mostrare una realtà che altrimenti non si vedrebbe. Non so se sia questo il segreto del successo, ma so che è questa la strada che cerchiamo di percorrere ogni settimana.

Da due anni Rete4 ha scelto una linea editoriale ben precisa che sta iniziando a pagare. Fuori dal Coro, Dritto e Rovescio, Quarta Repubblica, si può dire che è la culla di quel talk show di destra per il quale in Italia non c'era mai stato spazio?

Io non credo tanto alle definizioni politiche di destra o sinistra. Il mio modo di vedere le cose è piuttosto chiaro, ma io non mi identifico in uno schieramento, né contro il governo a prescindere, basti pensare che il Reddito di Cittadinanza è una cosa che ho sempre difeso e continuerò a difendere. Una cosa certa è che attraverso questi programmi passa la rappresentazione di una fetta di mondo che prima non si riconosceva nei talk show.

Nel senso che il talk show politico dominante in Italia ha sempre guardato a sinistra?

Beh, prima avevamo avuto esempi come Santoro e Lerner, entrambi grandissimi professionisti ma con una inequivocabile visione della realtà e ci si è sempre chiesti come mai non riuscisse ad imporsi un tipo di talk alternativo, di segno opposto. L'operazione di Rete4, fatta dall'azienda con grande coraggio, secondo me ha dimostrato che c'è una fetta di mondo che non si riconosceva in quei talk show lì.

Sul suo programma l'opinione pubblica si spacca: chi lo vede nella chiave delle verità che nessuno ci racconta e chi vi accusa di portare in onda un infotainment urlato e filo sovranista. Sono entrambe definizioni sbagliate?

Sono tutte e due vere ed è legittimo che chi guardi una trasmissione la giudichi anche in modo forte, in un senso o nell'altro. Sin dalle mie prime apparizioni in bicicletta in Pinocchio di Gad Lerner, sono passati ormai 30 anni, gridavo ed ero divisivo. Facevo queste brevi pillole in quel talk e ricordo che il giudizio sulla riuscita del mio intervento era basato sul fatto che al rientro in studio si accendesse o meno la discussione. La mia preoccupazione è comparire in televisione lasciando il segno.

Il rischio che il modo di dire le cose svilisca il contenuto c'è. Entrare in studio in monopattino indebolisce o rafforza il messaggio?

Il rischio c'è ma va corso. In molti talk show si sceglie di mettere a confronto due personaggi dalle opinioni divergenti, sapendo che trascenderanno nella rissa: questo rischia di oscurare il lavoro giornalistico? Certo che sì, ma una prima serata di quattro ore genera inevitabilmente la necessità di attirare l'attenzione e incuriosire il pubblico. Se io mi mettessi seduto a una scrivania a raccontare le cose con un altro tipo di tono, probabilmente non riuscirei a raggiungere tanta gente come accade.

In pratica il linguaggio estremo funge da esca. 

Torno alla mia storia. Quando facevo Lucignolo mi contestavano di raccontare cose molto forti, però noi con quel programma abbiamo avvicinato all'informazione, in era pre-social, generazioni di giovani che altrimenti non avrebbero mai guardato quelle cose e nemmeno saputo che l'informazione potesse essere fruibile, avvicinabile e interessante. Si corrono dei rischi? Certo e delle volte si sbaglia anche. Ma se non si corressero rischi non si farebbero cose nuove.

Hai parlato di era dei social, che oggi insieme agli ascolti permettono di tracciare e identificare il proprio pubblico in maniera precisa. Non c'è il pericolo di assecondare il tuo pubblico e dir loro ciò che vogliono sentirsi dire?

Questo è un rischio per chiunque faccia informazione. Se fai un giornale cerchi di coltivare un tuo pubblico per venderlo. Fare una copertina che irrita palesemente il tuo pubblico sarebbe controproducente. Così vale per la televisione. Lì il criterio che vale è sempre quello giornalistico. Noi martedì (29 settembre, ndr) parliamo di pensioni, vista anche la vicenda Tridico, con cui saremo critici non solo sullo stipendio, ma anche per una serie di inefficienze di gestione. Io so che quello è un argomento che interessa molto al mio pubblico, ma anche qui a contare saranno gli elementi di novità che offriremo con le nostre inchieste.

Quanto contano le logiche commerciali su un programma come il suo che influisce molto sull'opinione del pubblico?

Le esigenze commerciali contano, possono essere un limite ma sono anche una delle più grandi forme di libertà esistenti. È anche vero che i gusti del pubblico cambiano rapidamente e oggi più rapidamente di sempre. Pensiamo a cosa è accaduto quest'anno con tutti i programmi di attualità (e non solo) che si sono dovuti adattare alla realtà del lockdown. Io credo che la mia redazione abbia dimostrato la capacità di avere le antenne puntate sulla realtà e offrire un racconto diverso di ciò che stava accadendo. 

Torniamo alla riuscita dei suoi monologhi. La mia impressione è che funzionino anche perché danno voce a quei sentimenti di rabbia e rancore che caratterizzano i nostri tempi. È d'accordo?

Le mie trovate non sono solo espressioni di rabbia. Chiaro che se per tutta l'estate si parla di scuole, banchi e sedie con le rotelle e poi a settembre non ci sono nemmeno i professori, credo sia giusto gridare per rabbia. Ma non è il solo sentimento cui abbiamo dato voce e penso sarebbe sbagliato ridimensionare tutto al meme. Esiste una fetta corposa di persone arrabbiate, ma rappresentare la rabbia non è il solo scopo della trasmissione. 

È probabile che per molti il programma rappresenti una risposta a quella rabbia. 

Io non credo a coloro che danno risposte. Non ho soluzioni, nemmeno per pulire i miei occhiali. Il nostro è un tentativo di raccontare, dare informazioni, svelare delle cose, provare a capirle. Da settimane parliamo del tema dei bambini strappati alle famiglie e credo sia una cosa sulla quale fare chiarezza. Stessa questione per l'origine del virus: 150 paesi hanno votato per un'inchiesta sulle origini del coronavirus, perché non è ancora partita e non è stata fatta nemmeno una commissione? Solleviamo problemi, questioni, non è solo indignazione. 

Una larga fetta di opinione pubblica ritiene che alimentare la cultura del dubbio a prescindere sia dannoso. 

È un'opinione che conosco bene, ma mi permetto di dire che non credo sia compito del giornalismo dare delle risposte. Il giornalismo ha il dovere di sollevare dei temi, scovare delle questioni, farle emergere. Non c'è grande ingiustizia che non sia tenuta nell'oscurità e non c'è grande cambiamento che non nasca dalla conoscenza. 

Domanda obbligata: chi è Donato?

Donato è il regista della trasmissione (Donato Pisani, ndr), che io ho incontrato casualmente nella prima puntata della striscia quotidiana e che non conoscevo, mi è stato quasi un po' imposto a dire la verità. Poi invece ci siamo trovati benissimo ed è diventato un punto di riferimento. 

Qual è la genesi del siparietto che lo coinvolge puntualmente nei tuoi monologhi?

Eravamo partiti un po' alla garibaldina, non ne azzeccavamo una con i contributi e i servizi e quindi io lo chiamavo continuamente in causa. La cosa ci ha portato fortuna ed è diventato un tormentone. 

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