La vera storia del maxiprocesso a Cosa Nostra: dalla camera della morte all’aula bunker
La docufiction di Rai1 Io, una giudice popolare al maxiprocesso diretta da Francesco Miccichè con Donatella Finocchiaro, Nino Frassica e Francesco Foti racconta la storia vera del processo dello Stato contro Cosa Nostra. È febbraio del 1986 quando ha inizio il primo grado, che si concluderà a dicembre del 1987 e vedrà sfilare nelle celle dell'aula bunker, i più spietati boss della mafia. Sullo sfondo una Palermo insanguinata da una scia di magistrati, poliziotti, giornalisti e civili freddati per strada. Vediamo alcuni degli aspetti principali di questa pagina cruciale della storia della nostra Repubblica.
Il maxiprocesso di Palermo
Il maxiprocesso di Palermo è stato di certo il più grande processo organizzato contro la mafia. Diamo alcuni numeri: 474 imputati tra cui i boss Pippo Calò, Michele Greco e Luciano Liggio, oltre 900 testimoni e parti lese, 180 difensori, 600 giornalisti, 2 pubblici ministeri, 2 presidenti, 2 giudici a latere, 16 giudici popolari, includendo i supplenti. Il primo grado durò dal 10 febbraio 1986 al 16 dicembre 1987. Si giunse alla sentenza dopo 35 giorni di camera di consiglio.
Le vere giudici popolari
Caterina, il personaggio interpretato da Donatella Finocchiaro nella docufiction ‘Io, una giudice popolare al maxiprocesso‘, in realtà è una fusione delle storie delle tre vere giudici popolari. A ricoprire quel ruolo nella realtà furono l'insegnante d'italiano Francesca Vitale, la casalinga e moglie di un docente Teresa Cerniglia e un'altra casalinga e moglie di un medico Maddalena Cucchiara. Se in tanti presentarono un certificato medico pur di non esporsi al cospetto di uomini tanto pericolosi, le tre donne ebbero il coraggio di abbracciare questo impegno civico. Come è riportato anche nella docufiction, fecero i conti con minacce e intimidazioni. A Francesca Vitale, ad esempio, devastarono il negozio appartenente al marito antiquario e gli rubarono oltre 23 quadri. Inoltre – e anche questo è riportato nel progetto di Francesco Miccichè – si ritrovò nel bel mezzo di una crisi in famiglia. Il figlio, stanco della sua continua assenza, non le rivolgeva quasi più la parola. Singolare quanto accadde a Maddalena Cucchiara: "Vivo al settimo piano. Il giorno prima dell'inizio del maxiprocesso chiamo l’ascensore, apro la porta e solo per un soffio mi accorgo che sotto c’era il vuoto. Un palazzo messo sottosopra. Indagini e terrore".
L'aula bunker
L'aula bunker, accanto al carcere dell'Ucciardone, era stata costruita appositamente per un processo destinato a ospitare un numero anomalo di imputati. Nelle 30 gabbie ai margini della sala ottagonale, infatti, sfilarono 221 imputati già detenuti e 59 a piede libero. 194 imputati erano latitanti. Ogni cella, protetta da vetri antiproiettile e da agenti posti a sorveglianza degli imputati, poteva ospitare fino a 20 detenuti. Sul lato opposto, era posizionata la giuria, composta tra gli altri dai Pubblici Ministeri Giuseppe Ayala e Domenico Signorino, dal presidente Alfonso Giordano (che nella docufiction è interpretato da Nino Frassica) e dal giudice a latere Pietro Grasso. Seguirono le udienze oltre 600 giornalisti che si misero in viaggio da tutto il mondo per potere raccontare il maxiprocesso. In un clima di massima allerta, vennero incaricati 3000 agenti di mantenere un controllo serrato sulla zona, per scongiurare il rischio di attentati.
Il pentito Tommaso Buscetta svela i segreti di Cosa Nostra
Uno dei personaggi chiave del maxiprocesso di Palermo è il pentito Tommaso Buscetta. Arrestato in Brasile, nel 1984 era stato estradato in Italia e consegnato alle autorità americane. In occasione del maxiprocesso, però, era tornato in Italia per fare la sua deposizione. La sua testimonianza, affidata in principio al Giudice Istruttore Giovanni Falcone, è stata fondamentale per tracciare una mappa precisa di come la mafia si spartiva il territorio siciliano, ha smascherato il funzionamento del sistema che regolava Cosa Nostra e i meccanismi che innescavano le guerre di mafia. Il pentito spiegò: "Dagli anni '70 in poi Cosa Nostra ha sovvertito il suo ideale con cose non più consone. Con delle violenze che non appartenevano più a quell'ideale. Io non condivido più quella struttura a cui appartenevo". Le persone di cui denunciò i crimini, lo accusarono di mentire e di avere inventato tutto per migliorare la sua condizione di detenuto. Durante il confronto nell'aula bunker con Pippo Calò replicò: "Non voglio uscire da qui sconfitto? Io sono già sconfitto come te. Io ho perso la mia famiglia, ho perso la mia libertà".
Vincenzo Sinagra parla della camera della morte
Tommaso Buscetta non fu l'unico pentito a intervenire nel maxiprocesso. Lo fece anche Salvatore Contorno che dopo aver definito "infami", i boss che assistevano alla sua deposizione dalle gabbie, aggiunse: "Se muoio non ha importanza, ma voglio dire tutto quello che so. Cosa Nostra era nata per fare del bene ai poveri. Quando non c'era la droga in mezzo, il bene si faceva veramente perché la gente, quando succedeva qualcosa, non andava dai carabinieri, veniva da noi e ci diceva ad esempio ‘Mi hanno rubato la macchina, mi hanno rubato a casa' e gli trovavamo le cose. Questo era il beneficio di Cosa Nostra. Poi Cosa Nostra è diventata personale, si ammazza con facilità solo per interesse personale". Nel corso del maxiprocesso furono tanti i dettagli raccapriccianti che vennero raccontati. Tra quelli più macabri, sicuramente quelli che riguardano la camera della morte, un piccolo appartamento in Piazza Sant'Erasmo, di proprietà del clan Marchese, dove avvenivano sevizie e torture prima degli omicidi. Il pentito Vincenzo Sinagra raccontò una delle esecuzioni: "Lo hanno portato in una casa, lo hanno interrogato. Gli hanno dato due calci in faccia, poi lo hanno preso, lo hanno strangolato e lo hanno messo dentro l'acido. Venti minuti, un quarto d'ora e spariva".
Le sceneggiate dei boss: chi sente le voci, chi si cuce la bocca
Nel corso del maxiprocesso, i boss fecero di tutto per tentare di prendere tempo. Non mancarono vere e proprie sceneggiate. C'è chi finse di avere delle convulsioni, chi iniziò a dimenarsi sostenendo di sentire delle voci demoniache e non mancò chi arrivò a gesti ancora più estremi come il boss Salvatore Ercolano. L'uomo si presentò in aula con le labbra serrate per mezzo di una spillatrice. Il boss Tommaso Spadaro spiegò il senso della protesta. Ercolano, con quel gesto, intendeva dimostrare la sua indignazione per quanto dichiarato dai pentiti: "L'unica mia difesa è la bocca e a questa bocca non crede nessuno, perciò me la sono cucita". Poi, spavaldo, si infilò una sigaretta nella narice. Ovviamente venne prontamente ricoverato nell'infermeria dell'Ucciardone per liberarlo dalle spille che le chiudevano le labbra.
L'esito del processo
Ogni sceneggiata fu vana. Il processo arrivò al termine del primo grado e dopo 35 giorni di camera di consiglio si concluse con il seguente esito: 346 condanne di cui 19 ergastoli, 114 assoluzioni, 2665 anni di carcere e fino a 11.5 miliardi di multe. Le condanne vennero tutte confermate in Cassazione, molte delle assoluzioni vennero annullate con la disposizione di un nuovo giudizio per gli imputati.