Il silenzio della palude: non basta Berlino de La Casa di Carta e un finale da spiegare
"Il silenzio della palude" è il nuovo thriller, disponibile su Netflix, che è da giorni sulla bocca di tutti. È uno di quei film che potremmo definire "figlio de La Casa di Carta" e sfido a dimostrare che non sia così. Dopo il grande successo internazionale della serie che in Spagna aveva fatto una fatica incredibile a farsi apprezzare, tutti i progetti che gravitavano attorno agli attori o ai creatori di quella serie hanno goduto di una dose abbondante di luce riflessa. Tra questi, c'è l'effetto di "Vis a Vis" e c'è sicuramente questa opera prima di Marc Vigil (che di "Vis a Vis" ha diretto due episodi) il quale ha scelto di puntare su Pedro Alonso (il Berlino de "La casa di carta") per il suo misterioso scrittore Q.
Il film delude e non decolla mai
Il film è l'adattamento del giallo omonimo di Juanjo Braulio ed è stato presentato al Festival del Cinema di Siviglia nel 2019. In quella cornice, si è guadagnato anche una discreta accoglienza positiva. Poi, l'uscita su Netflix in tutti i paesi in cui il servizio è disponibile ad aprile 2020. Pedro Alonso è un attore indiscutibilmente affascinante ma a questo giro delude nonostante si muova all'interno di una magnetica Valencia dall'anima nera e marcia. C'è un intrigante e sbrigativo cattivo, "Falconetti", interpretato da un attore che già gode di una certa notorietà netflixiana ("Amar" e "La reina del sur") e che dopo questa potrebbe forse entrare nelle grazie anche del pubblico italiano: Nacho Fresneda. A parte questo, il film delude e non decolla mai.
Pedro Alonso è un apprezzato scrittore di noir di nome Q. I suoi libri raccontano di un assassino seriale che si muove nella natia Valencia. Un assassino che non ha motivi per uccidere, se non quelli di rispondere a determinate ed estemporanee pulsioni. "Il silenzio della palude" ci mette subito di fronte al dubbio che Q e l'assassino protagonista dei suoi romanzi siano in qualche modo la stessa persona, come se lo scrittore uccidesse per nutrirsi di quella verità necessaria al fine di poter terminare i suoi romanzi. Ce lo suggerisce egli stesso alla presentazione di un suo libro, rispondendo alla domanda di una ammiratrice: "Cosa lo spinge a uccidere? Perché lo fa?". Emblematica la risposta: "Perché può".
La spiegazione del finale
Questa risposta sbilancia e mette fuori strada lo spettatore, autorizzato a credere che lungo tutto l'arco del film lo scrittore si ritrovi invischiato realmente in tutto quello che succede. Dopo aver ucciso un professore universitario che rappresentava l'anello di congiunzione tra la malavita organizzata e alcuni importanti funzionari della politica, lo scrittore sarà l'obiettivo di una caccia all'uomo. Fino al drammatico e inaspettato finale, che resta comunque aperto a spiegazioni e interpretazioni.
Non basta avere il Berlino de "La Casa di Carta" per tirare fuori un buon film. Tutta la struttura è terribilmente debole e incoerente. Impossibile da valutare come semplice intrattenimento, perché la pellicola aspira a tutt'altro. Il monologo di apertura che prova a dividere le classi sociali in cui lo scrittore si muove con la vegetazione dell'Albufera, tutto quel pretenzioso ciarlare sulle canne e sulle anguille, cerca di alzare il livello filosofico senza però trovare alcunché nella risoluzione-non risoluzione finale. Il resto è fatto da un'ora e mezza di scene di tensione più o meno girate bene, ma senza alcuna voglia di andare a parare in alcunché. Peccato.