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Gomorra 2: l’emancipazione di Scianel e il condottiero barbaro

Gomorra è una delle tante fiction che racconta lo scontro tra poteri economici, sociali e militari schierati dalla parte del male. Un campo di battaglia, separato ma visibile, in cui la periferia è un guscio urbano in cui si alimenta lo “spazio della paura”.
A cura di Marcello Ravveduto
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Non v’è dubbio che questa settimana Gomorra – La serie abbia virato sul protagonismo delle donne. La macchina da presa le segue nei loro atteggiamenti più intimi, nelle loro voglie più nascoste, nei segreti anfratti di desideri che rimangono sospesi a metà strada tra emancipazione e tradizione.

Cristina Donadio (@Stefano Colarieti/LaPresse).
Cristina Donadio (@Stefano Colarieti/LaPresse).

Le donne sono pur sempre le custodi dei valori familiari che, nel ghetto della camorra, diventano regole sociali di rappresentazione del potere, un potere essenzialmente maschile, anche quando ad esercitarlo è una donna. Imma è scomparsa ma è come se avesse seminato, con il suo esempio, un campo di grano pronto ad essere raccolto: al posto di “nostra signora” entrano in gioco donne e ragazze in grado di scatenare guerre, condizionare strategie di conflitto, spaccare alleanze, assumere responsabilità apicali. Eppure, quando si tratta di donne, conta ancora, in questo paese maschilista e innamorato del mito dell’italian lover (oggi ampiamente superato da quello dell’italian killer), il senso estetico del femminile.

Si è addirittura aperto un dibattito sull’uso del vibratore da parte di Scianel. Una inutile discussione sulla femminilità come se il personaggio fosse veramente una donna. Scianel è soprattutto un boss. Un boss spietato ma con un marcia in meno: è donna e lei lo sa. Solo la mortificazione della sua identità, così come Salvatore Conte umiliava il suo corpo imponendosi continui sacrifici, le può far raggiungere quello stato d’indipendenza e di autonomia che le consenta di essere alla pari con gli uomini della camorra. È una forma di emancipazione al rovescio in cui il maschile domina una forma femminile in una specie di transessualità psicologica generata dalla sete di potere.

Patrizia è l’esatto opposto. Mantiene le sue caratteristiche di donna anche nei momenti più difficili. Riesce a leggere il contesto a partire da quella sensibilità mettendo in crisi le certezze del maschio proprio in virtù della sua femminilità. Ma quello che più mi ha colpito è la consonanza tra fiction e realtà. Mentre veniva assassinato sullo schermo un innocente scambiato per Lelluccio (il figlio di Scianel), nella vita reale un giovane di Ponticelli, Ciro Colonna, cadeva vittima di un agguato. Gli inquirenti si domandano se è o non è una vittima innocente visto che frequentava gli ambienti criminali. L’affermazione degli investigatori ci fa ripiombare nell’eterno loop in cui fiction e realtà si rincorrono.

Il punto di vista della serie, infatti, è proprio quello di un mondo chiuso in cui nessuno è innocente, in cui i circuiti relazionali si sviluppano in maniera orizzontale annullando ogni differenziazione etica. Gomorra, così, è la narrazione fictionale che assume l’orizzonte culturale (o subculturale) dei marginali appartenenti ad un’unica “regione morale”: status sociale, stessa occupazione o disoccupazione, stesso livello d’istruzione, stessi gusti, stessa concezione della famiglia, stessa visione del mondo. È proprio la chiusura al mondo esterno a permettere l’organizzazione di un reticolo di relazioni interindividuali e interfamiliari: mutua assistenza e scambio di servizi, con prassi clientelare.

Se poi agli scambi orizzontali si aggiunge la possibilità di stabilire contatti di prossimità tra residenti e camorristi, ecco che al rapporto vicinale si somma un modello “consortile” in cui l’organizzazione criminale può dare libero sfogo alla sua vocazione di parastato (prelievo fiscale e ridistribuzione del reddito, arruolamento di “manodopera militare”, erogazione di “servizi pubblici”, amministrazione della “giustizia”): un “sistema” ibrido, al cui centro c’è la camorra, che usa il solidarismo comunitario come base di un modello di società fondato sulla condivisione degli interessi.

Gomorra, in fondo, è una delle tante fiction che racconta lo scontro tra poteri economici, sociali e militari schierati dalla parte del male. Un campo di battaglia, separato ma visibile, in cui la periferia è un guscio urbano in cui si alimenta lo “spazio della paura”. Grazie a questa visibile separazione, sottoposta alla pressione mediale, Napoli si offre quale emblema della semplificazione criminalizzante. Il luogo non luogo in cui la sopravvivenza deriva da percorsi sociali, economici e culturali alternativi, informali ed illegali.

Una forma di autosegregazione che divide lo spazio urbano, attraverso la gestione criminale del degrado, in zone a forte omogeneità interna e a forte disparità esterna. Il ghetto mostra senza remore lo stato di abbandono in modo da spaventare i cittadini “normali” e tenerli lontani dagli affari del quartiere, innescando un circolo vizioso che allontana i marginali e i loro governanti camorristi da contatti eterogenei: più quei luoghi saranno ritenuti pericolosi maggiore sarà la possibilità di evitare la presenza di estranei.

La logica narrativa è quella dei Quartieri-Stato: “zone franche”, sottratte al controllo delle forze di polizia, che si pongono fuori dall’area legale di convivenza civile. Porzioni di territorio in cui il regime repubblicano è stato sostituito dal Sistema della camorra. Non è un caso, dunque, che solo raramente appaiano le volanti della polizia perché si vuole rendere l’idea di isole urbane e sociali presiedute da un regime dittatoriale di natura delinquenziale. I clan della camorra, pertanto, svolgono funzioni di «regolazione parastatale» con un vicariato extra legale, retto da un governo criminale socialmente legittimato, che domina incontrastato assicurando beni destinati a modelli culturali di disimpegno e consumismo.

I “sudditi” usufruiscono di un benessere che ha connotazioni ideologiche, veri e propri ritualismi: feste per le scarcerazioni, organizzazioni di feste patronali, celebrazione di funerali per gli affiliati, distribuzione di doni ai bambini, ripartizione di viveri e denaro ai senza reddito e così via. Il programma economico e i simboli ideologici trasformano in “organici” le fasce dei “suggestionabili”. I residenti delegano, perciò, ai “governanti” la gestione unitaria, senza deroghe, di ogni aspetto civile, economico e sociale che spetterebbe allo Stato.

Dunque la battaglia tra Ciro e don Pietro è tutta qui: piegare militarmente i marginali devianti e conquistare socialmente i gruppi meno abbienti per costruire consenso attorno al modello di controllo criminale. L’alternatività delle due opzioni è rappresentata da Ciro quando decide di non uccidere Patrizia per dimostrare il differente modo di agire tra lui e Savastano senior. Da Ciro l’Immortale a Ciro il magnanimo, insistendo su una visione di riscatto sociale attraverso la leva camorristica. Dal suo canto don Pietro reagisce puntando tutto sulla risorsa militare. Come Attila, flagello di Dio, dopo aver saccheggiato il campo nemico brucia tutto ciò che ne rimane per annientare ogni forma di resistenza. Un duro lavoro da spietato condottiero barbaro che, seppur stanco, potrà fermarsi solo con la vittoria finale o con la sconfitta definitiva.

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