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Francesco De Carlo dalla Brexit a Netflix: “Facciamo più stand up comedy e parliamone di meno”

Il comico romano debutta su Netflix il 12 aprile con lo show “Cose di questo mondo”. In quest’intervista ci parla di stand up comedy italiana e internazionale, del rapporto tra comicità e televisione e di Brexit, avendo scritto un libro sulla sua esperienza (“La mia Brexit”, Bompiani): quella di un comico che tenta l’avventura nel Regno Unito mentre il Regno Unito prova a scappare dall’Europa.
A cura di Andrea Parrella
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La stand up comedy italiana è una realtà che appare sempre più consolidata. Se ci ha scommesso Netflix questa impressione assume i caratteri della certezza. Dal 12 aprile sulla piattaforma streaming è disponibile "Cose di questo mondo", special di Francesco De Carlo, che insieme a Edoardo Ferrario (il cui show è disponibile da marzo) e Saverio Raimondo (dal 17 maggio) compone la triade dei primi comici italiani sbarcati su Netflix.

Lo abbiamo intervistato in giorni durante i quali la diatriba su cosa sia o meno la stand up comedy sembra essersi riaccesa. Gli stessi giorni in cui De Carlo sta promuovendo la sua prima fatica letteraria, "La mia Brexit" (edizioni Bompiani), riflessioni di un comico che ha scelto di inseguire il sogno di fare questo mestiere oltre la Manica nel momento sbagliato, ovvero mentre la Gran Bretagna prova a uscire dall'Europa.

Da oggi sei ufficialmente su Netflix con il tuo show. Lo consideri un punto di arrivo?

Guarda, è un mestiere di merda quello nostro, perché non sei mai contento di quello che fai, arrivi a un traguardo e pensi al successivo. Punti di arrivo, paradossalmente, non li trovi. Diciamo che negli ultimi anni ho imparato a godermi i risultati, quindi mi sento di dire che sicuramente questo di Netflix è un punto di arrivo nella carriera di un comico. Ma è anche un punto di partenza per la scena della stand up in Italia: è la prima volta che dei comici italiani vengono visti in 190 paesi. 

Un comico che scrive un libro sulla Brexit. Tale è il paradosso che l'ironia diventa la chiave giusta per raccontarla?

L'ironia aiuta tantissimo nelle questione personali, nei drammi, nelle tragedie. Utilizzarla su te stesso ti aiuta e, in una funzione catartica, aiuta anche il pubblico che ti ascolta. Se questo stesso discorso lo applichi alla questione sociale e pubblica, sicuramente questo della Brexit è uno psicodramma collettivo che la Gran Bretagna sta vivendo. Raccontata da un comico, soprattutto se straniero, può essere divertente e interessante.

Quindi tu hai l'hai percepita così, come un dramma collettivo?

Beh, un popolo così orgoglioso della democrazia e del coinvolgimento nelle grandi decisioni, che si trova a votare una cosa e adesso capisce che non si può fare… difficile leggerla diversamente. Hanno scoperto di essere sensibili a quel populismo, successivamente dilagato anche nel resto d'Europa. La differenza è che in Italia una cosa del genere non la puoi fare, perché la Costituzione lo impedisce. Una battuta che voglio fare nel mio prossimo spettacolo lì è: "Ragazzi, avete fatto una cosa che è vietata in Italia". Giusto per fargli capire l'assurdità della cosa.

La copertina del libro di Francesco De Carlo "La mia Brexit"
La copertina del libro di Francesco De Carlo "La mia Brexit"

Lo stand up comedian, d'altronde, si analizza. Stesso approccio con cui si affronta uno psicodramma del genere.

Analizzarsi è fondamentale. E la stand up è questo, si tratta di entrare dentro te stesso, toglierti i vestiti, togliere strati che impediscono agli altri di vedere chi tu sia veramente. I comici migliori sono quelli che hanno meno strati addosso, che salgono sul palco "nudi".

Nel libro parli della scelta di diventare comico e dici che "comicità e ironia sono stati i mezzi per fare breccia nell'indifferenza degli altri". Mi ha sorpreso perché ho sempre pensato alla comicità come a una missione e ora devo accettare che sia principalmente esibizionismo?

Ogni comico è un narcisista, io ho scoperto di essere un narcisista insicuro. Non so se si tratti di esibizionismo, ma sicuramente far ridere è un buon metodo per attirare su di sé l'attenzione. Nel libro faccio riferimento alla cosa in relazione all'altro sesso. Quando ho capito che facendo ridere avevo qualche chance in più, ho provato a sfruttarla.

Nella costruzione dei tuoi monologhi in inglese ti poni come l'italiano all'estero, o ti percepisci come uno stand up comedian del mondo?

Io sono partito per fare lo stand up comedian del mondo, ma l'italianità è la sola cosa che mi caratterizza davvero. Ho dovuto accettare la mia specificità cercando sempre di evitare il rischio macchietta, quello con l'accento marcato che parla di luoghi comuni. Quest'anno per fortuna sto facendo uno spettacolo che parla assolutamente di me: ho l'accento italiano, non lo perderò mai e nemmeno lo voglio, ma sto provando a evitare di appoggiarmici sopra troppo. 

A bruciapelo: mi dai una definizione di stand up comedy?

Volentieri: guarda su Wikipedia, alla voce "stand up comedy".

Ti appassiona la discussione sulla presunta differenza tra stand up comedy e cabaret?

Una cosa che ho notato con l'estero è che qua si parla tanto di stand up comedy e se ne fa molta poca, lì se ne parla meno e se ne fa tanta. All'estero i comici vengono presi sul serio ma non si prendono sul serio, mi pare che in Italia accada esattamente il contrario.

La mia impressione, anche in seguito a colloqui con tuoi colleghi, è che la stand up possa diventare come l'indie per la musica, un'etichetta che uno si appone addosso indipendentemente dal contenuto. C'è il rischio di omologazione?

Più che altro io penso a un altro rischio che è quello della ghettizzazione. All'estero la stand up è una forma di spettacolo mainstream, istituzionalmente riconosciuta, parla a tutti. Qui c'è l'idea che la qualità non fa mercato ed è stato tra i motivi che mi ha spinto a partire. Pensare che chi apprezzi una comicità alla Zelig non possa apprezzare la tua è una partita persa in partenza. Io sono sempre stato tra quelli che non volevano una lotta frontale con il cosiddetto cabaret, anche se all'inizio ci ha giocato molto. Detto ciò noi abbiamo bisogno di comici e mi fa piacere che tanti giovani si stiano avvicinando alla stand up, quello che serve sono i club in giro per l'Italia. Il pubblico c'è, bisogna creare una rete.

Quindi tu concordi rispetto alla sterilità del dibattito su cosa sia o meno stand up comedy e che sarebbe meglio distinguere la buona comicità da quella che non lo è?

Sulla qualità della comicità si entra in un contesto soggettivo, ma quello che posso dire è che se pensiamo a Louis C.K. e ad altri grandi nomi della comicità internazionale, quelli sono sicuramente i più bravi che hanno. Esiste anche lì una comicità più popolare, più di pancia, però quando tu all'estero chiedi chi sia il miglior comico non c'è dubbio sulla risposta. Sulla confusione generata dal fenomeno stand up ti racconto che ultimamente sono andato in televisione a presentare il libro e prima della trasmissione mi chiedono se in sovrimpressione avrebbero dovuto scrivere "stand up comedian". E io lì a dirgli "ma no, mettete comico". Questo per dire che io quello sono e se qualcuno noterà una differenza sarò contento. 

Non credi che Netflix sia arrivata su di voi con un leggero ritardo?

Se Netflix avesse dovuto scegliere dei comici italiani in base ai numeri, probabilmente non avrebbe chiesto a me, Edoardo Ferrario e Saverio Raimondo, ma forse ad altri comici che fanno numeri più alti. Probabilmente hanno preferito puntare su nomi meno famosi, che però magari hanno qualcosa di più in comune con una comicità internazionale. A mio avviso Netflix ha provato a scoprire l'underground.

Negli ultimi anni hai fatto cose diverse in Rai, dimostrando di poter applicare il tuo tono comico a varie forme che non fossero solo quella del monologo. Non trovi assurdo che il servizio pubblico, dopo avervi accolti e in parte capiti, abbia lasciato che Netflix mettesse le mani sulla stand up?

In Tv c'è un modo di pensare provinciale, non lo dico perché mi crea chissà chi, ma è una questione generazionale. In televisione non c'è propensione a scommettere su qualcosa che non dia risultati immediati e certi. Si parla sempre del passato, si guarda sempre indietro, da Troisi a Totò, Verdone, Proietti. Questi sono i miei miti, faccio questo lavoro soprattutto grazie a loro. Però nel 2019 possiamo ancora fare puntate monografiche su di loro? Non si pensa che il pubblico voglia vedere qualcosa di nuovo? Noi non diventeremo mai come loro, che sono maestri, però qualcosa di diverso dovremmo darlo.

Posto che la Tv non sia più fondamentale, oltre a Netflix credi che esistano altri canali attraverso i quali la stand up possa ambire a diventare mainstream?

Io sono vecchio dentro, lo ero a vent'anni e pensa quanto riesca a vedere di buon auspicio i social. Vedo giovani che hanno iniziato recentemente che ne fanno grande uso, perché il mezzo è neutro e conta che utilizzo ne fai. Io sono in ritardo su questa cosa e sono sempre stato affascinato dalla televisione, dalla radio, dal cinema. Su tutto quello che è avvenuto da Youtube in poi sono in difetto e non credo sia colpa di Youtube. Io spero di trovare spazio su internet, ma spero anche nella televisione: non sarà più quella di un tempo, cambierà.

Lo spettacolo che porti su Netflix è inedito?

Si tratta della traduzione dello show che ho portato al Soho Theater di Londra. Un comico deve fare sempre le cose che lo rappresentano in quel momento. Quando ho scritto questo spettacolo uscivo da un periodo in cui avevo girato il mondo portando il mio spettacolo in posti che non avevo mai visto. Quindi ho pensato di mettere tutte queste cose nello spettacolo. Mi hanno fatto cambiare molto.

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