Preziosi e Don Peppe Diana: il marketing dell’antimafia
Ho fiutato sui social network il vento delle opinioni sulla fiction “Per amore del mio popolo”, realizzata da Rai 1 sulla figura di don Peppe Diana. Ho letto decine di post ma uno mi ha colpito più degli altri: “Con tutto il rispetto per il film, ma quello su don Diana è la solita fiction che più becera non si poteva fare. Certe produzioni Rai si confermano per quello che sono: toccano anche i santi e li fanno diventare luoghi comuni”.
A dire il vero poteva andare peggio, trattandosi di un’operazione di marketing che sfrutta la moda dell’antimafia per attirare un po’ di pubblico a buon prezzo. Un’esaltazione dei buoni sentimenti in prima serata (amicizia, amore, fratellanza, solidarietà e via dicendo) abbastanza consueta per il primo canale della Tv di Stato, di cui è noto il forte orientamento cattolico. Non a caso, dietro la narrazione dei fatti, si scorge l’intenzione degli autori di comporre un’elegia del magistero di Francesco che appare in sintonia con gli umili rappresentanti di una Chiesa decisa a contrastare il male (tra cui le mafie) per infondere coraggio agli uomini di buona volontà. Si insiste, perciò, sul ruolo del sacerdote, sulla sua capacità di trasformare con l’esempio la comunità dei fedeli, coincidente con la società civile, trovando parole di conforto per rasserenare gli atterriti e rincuorare i suggestionati dal potere dei clan. Ad ogni passaggio si ripete il climax della scelta che si manifesta sotto forma di lotta per il controllo delle coscienze.
Si ritrovano, così, a compiere decisioni inderogabili tutti i protagonisti della storia: i preti della forania, il vescovo, i ragazzi dell’oratorio, la figlia del boss, il fotografo e Domenico che, sballottato tra il fascino del crimine e l’amore per il prossimo, alla fine si redime rifiutando di essere l’esecutore materiale dell’assassinio. Persino a Dio don Diana chiede da che parte sta come se dalla sua scelta dipendesse l’esito della battaglia per la conquista del consenso popolare. Nostro Signore sta con la camorra o contro la camorra? La risposta all’ossessione del sacerdote arriva direttamente, e non casualmente, dal Papa, Giovanni Paolo II, mentre sta scagliando contro la mafia il famoso anatema di Agrigento (1993). È l’immagine di una Chiesa in prima linea che testimonia la verità di Cristo con la vita dei suoi martiri (come suggerisce l’esplicito riferimento a don Puglisi).
Ecco svelato il marketing dell’antimafia che, innestato nella celebrazione del ventennale della morte, diviene l’affermazione di una santificazione popolare, rafforzata dalla potenza del medium televisivo. Nella fiction l’immagine dei camorristi è sdoppiata: la vecchia generazione, in stretta connessione con il potere politico, aspira al riconoscimento sociale derivante dallo status di imprenditore, anche se alla base dell’accumulazione patrimoniale c’è la droga; la nuova generazione, invece, non rispetta le regole del gioco e punta al potere assoluto, ancor prima della ricchezza, rispondendo alle parole di sfida del prete (e alle conseguenti azioni: l’elezione del nuovo sindaco anticamorra e il pentimento del prestanome Saverio) con i proiettili delle loro armi.
Tuttavia, il prodotto televisivo perde potenza se lo valutiamo nella sua messa in scena: la fragilità dei dialoghi (in qualche caso recitati in maniera insulsa) e la banalità delle sequenze (soprattutto nella seconda puntata) provoca l’agglomerarsi di luoghi comuni retorici che annullano la drammaticità degli eventi. Mostrare don Peppe in chiesa, durante il funerale di Francesco, che urla chiedendo a Dio di essere partigiano per poi abbandonare la funzione lasciando il vescovo da solo sull’altare è davvero poco credibile. Certo si vuole scatenare l’emozione dei telespettatori e giustificare la motivazione che lo spingerà a modificare il segno della missione pastorale nel verso della lotta alla camorra, ma, allo stesso tempo, il tanto sbandierato neorealismo dell’opera, nella fase di promozione precedente alla messa in onda, va a farsi benedire.
Non c’è da meravigliarsi più di tanto; del resto aver voluto come protagonista Alessandro Preziosi già sottrae verosimiglianza al racconto: don Diana era tarchiato e robusto, aveva i capelli radi, il viso tondo e, soprattutto, i suoi occhi neri erano più penetranti di quelli verde smeraldo dell’attore/indossatore. Per carità Preziosi ha provato con tutto se stesso a calarsi nella parte, anche aiutato dal dialetto, ma non è riuscito a togliersi dalla pelle quell’odore di bello e impossibile più adatto ad un sequel di “Uccelli di rovo” che ai morti ammazzati di Casal di Principe. Diciamola la tutta: la Rai ha investito sulla sua presenza per vincere la battaglia dell’Auditel che sicuramente per i dirigenti dell’azienda è più cruenta della lotta alla camorra. Si è provato ad attirare il pubblico disinteressato e svogliato delle fiction verso una storia di impegno civile. Un obiettivo meritevole se non si fosse commesso un errore di sottovalutazione: la carica sensuale di Preziosi ha sminuito l’alto valore umano di don Diana.
Le fiction biografiche di maggior successo, che hanno costruito intorno ai protagonisti (nel bene e nel male) un’aura mitologica, sono quelle in cui gli interpreti hanno una forte somiglianza fisica con il personaggio reale: il Cutolo di Ben Gazzara, l’Impastato di Luigi Lo Cascio, il Riina di Claudio Gioè, il Borsellino di Giorgio Tirabassi. La Rai ha commesso lo stesso errore un anno fa quando ha fatto interpretare Borsellino a Zingaretti, la cui bravura rimane indiscutibile. A discolpa della Tv di Stato c’è l’attenzione per tematiche di impegno civile e le vittime innocenti delle mafie, specialmente se pensiamo che il principale concorrente ha realizzato fiction che esaltano il “Capo dei capi” e il “Clan dei camorristi”.