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“Boris” su Netflix, 10 anni dopo la fiction in Italia è ancora “a cazzo di cane”

“Boris”, la serie cult trasmessa su Fox tra il 2007 e il 2010, ritorna su Netflix a partire dal 26 febbraio. Un’occasione d’oro per recuperare o rivedere una produzione unica nel suo genere che, a quasi dieci anni dalla prima puntata, è ancora tragicomicamente attuale.
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"Boris", la serie cult trasmessa su Fox tra il 2007 e il 2010, ritorna su Netflix a partire dal 26 febbraio. Tutte e tre le stagioni saranno immediatamente disponibili sulla internet tv insieme a tutti gli altri contenuti originali,  da "Daredevil" a Better call Saul", da "Orange is the new black" a "Bloodline", per la gioia dei fan di una serie che è stata in grado per tre stagioni di dire tutto quello che si è sempre pensato sulla fiction italiana: sciatta, asservita, approssimativa, clientelare e scadente. E lo ha fatto con grande sorpresa di chi, ritrovandosi nel 2007 ad apprezzarla per la prima volta, guardava le invettive di René Ferretti, il regista della serie fittizia "Gli occhi del cuore 2", i capricci di Stanis, il divo primoattore, la cagna maledetta Corinna e il modo di lavorare "a cazzo di cane" di tutta la produzione, come qualcosa di liberatorio e allo stesso tempo di anormale e di lontano dall'appiattimento di contenuti che, ancora adesso a 10 anni dalla prima puntata, impera in tv.

Così, mentre oggi si leggeva dei dati di Critica Liberale presentati alla Camera dei Deputati circa lo spazio che la Chiesa Cattolica occupa sulla tv generalista, dalle notizie dei tg alle produzioni seriali come "Don Matteo", non si poteva fare a meno di pensare a quel "Ma Giulia…", la sequenza che vede René Ferretti costretto a montare una puntata de "Gli occhi del cuore 2" in modo da non far passare un messaggio pro-aborto. Ecco "Boris" è questo: la coscienza di vivere in un paese che proprio non ce la fa ad abbracciare il cambiamento, a fare le cose per intero e non a metà (vedi il pasticcio delle unioni civili), un modus vivendi ed operandi che condiziona giocoforza soprattutto la produzione televisiva. A distanza di 10 anni, è cambiato poco o nulla nella fiction italiana generalista.

La trama di Boris

"Boris" è una critica feroce, netta a questi ambienti della tv in cui la meritocrazia latita e le velleità artistiche si trasformano negli incubi più feroci, colpevole una troupe di inetti e una dirigenza che assume e licenzia solo in base a logiche di potere. Tutto è visto dagli occhi di Alessandro (Alessandro Tiberi), il giovane stagista che seguiamo sin dalla prima puntata nel popoloso mondo del "dietro le quinte" de "Gli occhi del cuore 2": con il regista René e i due attori Stanis La Rochelle (Pietro Sermonti) e Corinna Negri (Carolina Crescentini), ci sono Arianna, l'assistente di scena interpretata da Caterina Guzzanti, Itala (Roberta Fiorentini), la segretaria di edizione, Sergio (Alberto Di Stasio), il direttore di produzione e Lopez (Antonio Catania), il delegato di rete. Menzione a parte per il direttore della fotografia Duccio Patané (Ninni Bruschetta) e il capo elettricista Biascica (Paolo Calabresi), entrambi fieri Totò e Peppino del dolce far nulla.

La luce "smarmellata" e il cameo di Paolo Sorrentino

Un passaggio chiave, tra le tante trovate dell'universo di "Boris", è la teoria della fotografia di una fiction di Duccio Patané, il quale sostiene che deve necessariamente essere brutta perché, se fosse migliore di quella delle pubblicità, la gente cambierebbe canale. Da qui la scelta di una luce "smarmellata" ovvero sovraesposta, una luce che viene scelta anche da Paolo Sorrentino, protagonista di un cameo indimenticabile nella parte di se stesso, quando si offre di girare una puntata de "Gli occhi del cuore 2" al solo scopo di ammazzare definitivamente "questa serie di merda".

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