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60anni di Mamma Rai: un tempo ci educava, oggi ci accontenta

Il 3 gennaio del 1954 partivano le trasmissioni del servizio pubblico. Nasceva con l’intento di formare il gusto degli italiani, prima di capire che accoglierne i capricci fosse molto più semplice.
A cura di Andrea Parrella
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La Rai compie 60 anni, è il giorno giusto per cimentarsi nella ricerca di frasi nostalgiche e ad effetto. Saranno in tanti oggi a farlo, omaggiando a ragione o a torto uno dei simboli identificativi della nazione. La Rai è un coacervo di luoghi, cose e persone che hanno tracciato il percorso educativo di buona parte dei cittadini. Nel 1954 nasceva la tv, come dice Aldo Grasso "da un gruppo di teatranti che, senza condizionamenti di modelli e formule straniere, iniziò a fare programmi, sperimentalmente all'italiana, senza una specifica preparazione, sbagliando, discutendone, correggendoli, secondo un proprio gusto che si formava giorno per giorno" (Storia della televisione italiana, Garzanti). 

Non v'è bisogno di essere storici del piccolo schermo per capire quanta differenza di vedute esista tra quell'impostazione e l'orientamento contemporaneo. Di mezzo vi sono 60 anni, le tv commerciali ed un enorme mucchio di cose che hanno obbligato Mamma Rai ad una metamorfosi fisiologica; un cambiamento che avrebbe potuto portare dovunque e che ha portato la Rai ad essere sinonimo della parola Canone. E se un servizio diviene, nell'ottica comune, il tributo che costa, un problema di fondo deve pure esserci. Rispetto al 1954 l'impressione netta è che alla Rai sia mancata, negli ultimi quindici anni, la voglia di fare televisione propria. I criteri della sperimentazione, della possibilità d'errore, della correzione in itinere, vivono in rapporto di antitesi netta con tutto ciò che è Auditel, ascolti, pubblicità. Sviluppare un proprio gusto è divenuto un optional.

L'errore del servizio pubblico italiano è stato quello di abdicare al ruolo di educatore, alla responsabilità di veicolare i gusti e le tendenze degli italiani. Ha smesso, ove mai l'abbia fatto, di preoccuparsi a metterci in guardia dall'inguardabile, a sviluppare una sensibilità comune. La metafora è quella di un cambio di ruolo, dove la mamma deve prendersi la responsabilità di dire al figlio anche le cose più dure, imporsi per formarlo e svezzarlo culturalmente; allo stesso tempo la parente meno stretta, divincolata dal problema di sopportare il bambino tutti i giorni, lo accontenta per qualsiasi capriccio manifesti, disinteressata alle conseguenze che porta, perché non sarà lei a doversene fare carico. Diciamo che è così, la colpa della Rai, dopo 60 anni, è di aver scelto il ruolo più comodo di una zia, al posto di quello di madre, di accontentarci anziché educarci, non darci mai la pillola o, nel caso, di spalmarci su del miele preventivamente.

Ma resta un compleanno da celebrare, in anni in cui il servizio pubblico dà la lontana impressione di voler rialzare la china. Senza troppa ispirazione (ispirazione e revisione dei costi non vanno proprio di pari passo), ma il tentativo di imporre una strada, cercare un approccio qualitativo, per quanto apparente, sembra essere la missione cui i dirigenti attuali sono chiamati. Non si può sapere se si tratti di Don Chisciotte sprezzanti delle difficoltà cui si trovano incontro, o di educati addetti alla dismissione, la speranza di fondo è che comprendano la responsabilità che hanno per le mani e se ne facciano carico: fare una tv nella quale l'eccezione di un buon prodotto torni ad essere la regola, almeno negli intenti.

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