“L’oro di Scampia” emoziona tutti e ha tutti i difetti della nostra fiction
Oltre al Festival di Sanremo, il controesodo estivo e la vendemmia, c'è un'altra prassi di cui gli italiani, pur volendo, non potrebbero sbarazzarsi: la fiction annuale con Beppe Fiorello. Una ricorrenza che nessuno può più mettere in discussione, permeata a tal punto nel nostro immaginario collettivo da riuscire a tenere testa all'analogia di Mastrota per le televendite. E' un peccato, lo si dice con serietà, perché tanti dei film di cui è stato protagonista il Fiorello non più meno noto dell'altro, non hanno nel protagonista il loro peccato originale. "L'oro di Scampia", andato in onda su Rai1, è stata l'esempio di un'abilissima esaltazione della bella storia di Gianni Maddaloni e della sua palestra immersa nel quartiere Scampia, meritevole di aver tolto dalla strada molti ragazzi, suggellando la sua enorme funzione sociale con la medaglia d'oro olimpica di suo figlio Pino. Gradevole, commovente e finanche con la vocazione a trasmettere un messaggio, non c'è che dire.
Al netto della classica diatriba che non può mancare tra chi crede che sia giusto mostrare questo volto disagiato di Napoli e chi invece sosterrà la tesi di un ritratto parziale che non rende giustizia ai napoletani e bla bla bla, la si ritiene abile e riuscita perché si tratta di una fiction generalista, nazional popolare, perfettamente imperniata su quegli stessi difetti che alla fiction italiana si continuano a imputare da quando esiste. Sono sempre i soliti, quei tre o quattro, spesso allungati in un brodo, in altri casi più asciutti e meno evidenti. Innanzitutto la mitizzazione del protagonista, rafforzata con maestria da quell'enfasi recitativa che di Fiorello è un marchio di fabbrica; in secondo luogo, cosa strettamente correlata alla precedente, lo sbarramento di una strada alternativa nella percezione dei personaggi, piatti nella loro caratterizzazione, privi del minimo accenno di sfumatura, dediti ad accontentare quello che il pubblico già sa di voler vedere. Da non dimenticare è poi l'esasperazione emotiva estrema, che devi ridere o devi piangere o devi almeno scuoterti, altrimenti la scena non è riuscita: è questo il fattore che meglio contribuisce a rendere impossibile la benché minima valutazione estetica. E infine, nel pantheon dei difetti, il pressapochismo: nei doppiaggi, nelle scelte degli attori che non parlano i dialetti dei personaggi che interpretano, nelle macchine moderne che sbucano improvvisamente in ambientazioni anni '90.
Fiorello paga, e continuerà a pagare fino a che esisterà, questa sorta di struttura a piramide che impone, involontariamente o meno, ai film ai quali prende parte. Che siccome si fregiano del suo nome e del suo volto, quelli di un attore bravo ma non trascendentale, si pensa "Vabbe', c'è Fiorello, non se ne accorgerà nessuno se nella scena in automobile finge di guidare agitando il volante a destra e a sinistra, oppure se lo sfondo sul lunotto posteriore è identico a quello usato per ‘Taxi Girl" con Edwidge Fenech nel 1977″. Invece qualcuno che se ne accorge c'è. E siccome non pare ancora concretizzatasi l'idea di un Beppe Fiorello dipendente pubblico stipendiato dallo Stato, si potrebbe immaginare, ad esempio, all'ipotesi sacrilega di affiancargli dei coprotagonisti, immaginarlo in un film corale in cui il santo non sia solo uno ma ce ne siano diversi, inserirlo in un contesto differente da quello in cui lo vediamo da anni. Perché magari potrebbe esaltare anche le sue doti, forse schiacciate dal peso di dover sempre interpretare il ruolo dell'eroe. Ma poi è altrettanto vero che la fiction costerebbe di più, dando un identico riscontro di pubblico. E quindi perché mai fare adottare questa logica? Perché mai rischiare? Va bene, va tutto benissimo, però poi non vi lamentate se si criticano sempre le stesse cose.