Guardare “Tredici” e sentirsi in “Beverly Hills 90210”, non basta essere la serie di cui tutti parlano
Pubblicata il 31 marzo su Netflix, "13 reasons why", in Italia più nota come "Tredici", non smette di ricevere feedback positivi dal pubblico della internet tv. Della serie tratta dal romanzo omonimo di Jay Asher ne parlano davvero tutti, ma non basta. I temi trattati sono di quelli caldi, partiamo dai classici turbamenti dell'adolescenza fino al bullismo, la violenza di gruppo, la ghettizzazione del pensiero spontaneo, la distorsione della comunicazione verso il mondo esterno e l'eterna distanza tra genitori e figli. Tutto questo è concentrato nella storia di Hannah Baker, liceale morta suicida che lascia sette musicassette in cui spiega i tredici motivi del folle gesto.
I destinatari delle cassette sono alcuni dei compagni di scuola che Hannah reputa colpevoli del suo suicidio, tra questi Clay Jensen, mite ragazzino innamorato in segreto della ragazza suicida. Seguiremo il suo punto di vista, la sua ricerca a indizi, persone e comportamenti che, cassetta dopo cassetta, dipaneranno il quadro d'insieme e porteranno alla risoluzione dell'enigma: per quale motivo Hannah Baker si è tolta la vita? Ed è qui che la serie tv, partendo da ottime premesse, finisce per mancare il bersaglio. Perché "13 reasons why" perde l'occasione di affrontare i temi caldi dell'adolescenza con decisione e reale crudezza, decidendo di mostrare tutto solo in superficie. Episodio dopo episodio, sembra quasi di rivedere "Dawson's Creek", ma senza il triangolo Dawson-Pacey-Joey; il "Beverly Hills 90210" ma solo con il suicidio di Scott in continuo loop.
L'escamotage narrativo delle musicassette e dell'utilizzo del vecchio walkman, al tempo dei video Youtube che mostrano le reazioni dei bambini di oggi agli oggetti simbolo degli anni '80, rappresenta un mezzo come un altro per cavalcare strumentalmente anche in questa serie l'effetto ‘retro-nostalgia' che tanto piace ai 30enni (vedi "Stranger Things"). La tragedia, così, finisce per essere banalizzata e Hannah, di cassetta in cassetta, sembra trasformarsi quasi in una paradossale Jigsaw. Il suicidio alla fine ne esce spettacolarizzato, passa più per una vendetta punitiva collettiva che per un flusso di coscienza salvifico per sé stessa.
Il problema del bullismo e dell'omofobia nelle scuole americane esiste ed è tra i temi in cima alle priorità dei dirigenti scolastici a stelle e strisce, al punto che il dibattito negli Usa è sul "far vedere o no" la serie agli studenti. Il problema esiste anche qui in Italia (75 suicidi in età adolescenziale solo nel 2015, dati Istat), ma senza l'edulcorata carrellata di atleti palestrati e cheerleader che vediamo nella serie Netflix.
Da qui l'occasione persa. I racconti di Hannah Baker finiscono per girare tutti sullo stesso punto: le incomprensioni, le parole non dette, lo schernimento. Turbamenti di una ragazza che ha paura del giudizio degli altri ma che non palesa mai alcun segno di malessere sincero, non c'è segno di depressione, non c'è alcun tipo di focus su segnali d'allarme come il progressivo disinteresse alla vita e agli affetti del quotidiano .
"Tredici" tutto questo non lo fa e preferisce nascondersi dietro la facile empatia di una narrazione che tocca tutti gli stereotipi, meno quello più doloroso e necessario. Questo finisce per tradire ogni premessa iniziale e lasciare per strada approfondimenti che – in una serie che parla e si rivolge soprattutto ai teenager di oggi – dovevano esserci per fare di questo show un reale capolavoro e non semplicemente ‘la serie di cui tutti parlano".