Gomorra 2: la balcanizzazione del ghetto
L’inizio del quinto episodio ci proietta in una dimensione di modernizzazione spinta: con una stampante 3D si realizzano i pezzi di una pistola tutta in plastica (mono-proiettile) che può superare i controlli del metal detector. È sempre più netta, in questa seconda stagione, la divaricazione tra le dinamiche del ghetto e quelle del traffico internazionale di droga; una divaricazione giocata sul filo dello scontro generazionale e della visione strategica nel triangolo formato da Ciro, Pietro e Jenny Savastano.
Nell’ottica del territorio conta la capacità militare di controllo di rioni, piazze, strade e vicoli all’interno dei quali esercitare un’autorità simile a quello dello Stato, con una gerarchia sociale imposta dall’oligarchia del clan che distribuisce risorse diverse a condizione diverse in base alla vicinanza al “capo”. Le forze militari, in tal caso, sono schierate sia in funzione di difesa esterna, sia come polizia interna con l’obbiettivo di tenere a bada l’esercito di riserva dei “guagliuni ‘e miezza a via” sempre potenzialmente pronti a ribellarsi contro gli oligarchi. Nell’ottica degli affari, viceversa, il territorio rischia di essere un problema: le risse, gli scontri, le faide richiamano l’attenzione delle forze dell’ordine e dell’opinione pubblica rallentando la commercializzazione della merce. Il prodotto interno lordo della camorra può diventare benessere criminale solo se c’è pace tra i contendenti che disciplinatamente si dividono le piazze di spaccio, punto terminale della rete di vendita in cui l’offerta incontra la domanda dei consumatori.
Il territorio diventa relativo perché la vendita può essere spostata in luoghi più sicuri, soprattutto se la droga in questione è la cocaina che, avendo una clientela trasversale, può entrare attraverso ambienti insospettabili. La tranquillità delle transazioni è fondamentale anche ai fini del reinvestimento nel mercato legale. Si ripropone, in termini di narrazione televisiva, la nota distinzione tra power syndicate ed enterprise syndicate in cui il valore della violenza muta da risorsa di potere in sé a risorsa strumentale di tutela del mercato. Il passaggio è rimarcato in tre momenti del quinto e del sesto episodio: l’amico di Jenny che ruba il rolex alla festa del suo compleanno a Roma; l’incontro faccia a faccia nella camera d’albergo tra Jenny e Ciro; il dialogo tra Pietro e Jenny nel negozio di argenteria.
In ognuna delle tre scene Jenny è protagonista. Ciò significa che è il motore di questo cambiamento. Una trasformazione che è anche un mutamento di scenario, Roma. Nella Capitale fluiscono i capitali riciclati dei camorristi: hotel di lusso, stabilimenti balneari, ristoranti gourmet, pizzerie e soprattutto sviluppo edilizio; un contesto in cui la mafiosità degli imprenditori si intreccia con la corruttibilità dei amministratori e funzionari pubblici. A differenza di Ciro e Pietro, Jenny ha davanti agli occhi un panorama differente, un territorio libero, «una prateria» da colonizzare in cui le uniche leggi del mercato sono quelle imposte dai fuorilegge. Gli sceneggiatori sembrano voler mostrare l’avverarsi del mito della frontiera. Come in tutti i processi di colonizzazione, modellati sull’esempio narrativo del “Far West”, gli operatori economici implicati hanno sempre una doppia identità.
Rispettabili imprenditori, spesso semplici prestanome di investitori con un marcato accento napoletano, nascondono alle loro spalle un mondo criminale da cui traggono un duplice sostentamento: la disponibilità quasi illimitata di risorse finanziarie da “bruciare” in alcuni settori economici; la capacità coercitiva di imporre un monopolio produttivo e commerciale nei comparti in cui si è deciso d’intervenire. La prospettiva di Jenny, allo stato attuale, è quella del narcotrafficante al centro di una serie di affari finanziati con i proventi della vendita all’ingrosso di stupefacenti. Il tempo trascorso in Centroamerica lo ha reso una specie di narcos globalizzato che diffida delle dinamiche conflittuale della camorra glocalizzata. Per questo accetta l’offerta di Ciro che lo libera dalle pastoie del controllo territoriale, aumentando le possibilità di profitto. Ad ostacolare la strategia non sarà tanto il padre, quanto gli errori commessi nel passato, ovvero quel gruppo di giovani violenti incontrollabili che un tempo sono stati i suoi spietati “pretoriani” strafatti, in cerca di soldi e potere.
Non ho usato a caso il termine “pretoriani”. Pianificano infatti un attacco militare applicando, da un lato, una tecnica di guerriglia urbana ed esaltando, dall’altro, almeno due caratteristiche dell’agire terroristico: il golpe contro l’autorità formalmente riconosciuta (l’occupazione del quartier generale dove vivono boss e affiliati) e la pulizia etnica dell’avversario (la cattura degli uomini e l’allontanamento delle famiglie dagli alloggi). Il travestimento e le tattiche di assalto alla palazzina degli oligarchi mostrano gli effetti della globalizzazione criminale che ha ibridato anche le modalità canoniche della violenza camorristica. Tutti, tranne Jenny (almeno per il momento), agiscono secondo una logica fondamentalista: il loro mondo inizia e finisce all’interno del rione in cui sono rinchiusi. Qualsiasi presenza esterna è interpretata come una sfida all’integralismo criminale di cui si nutrono avidamente. Basta innescare il meccanismo di riconoscimento identitario, a cui segue l’annullamento fisico e morale dell’avversario, per scatenare la balcanizzazione del ghetto.
Ciro, dopo aver confessato il suo lato più oscuro a Jenny, torna ad essere il Jago della prima serie provando a mettere tutti contro tutti, ma il giovane Savastano, da quel che intuiamo, già ha in mente una contromossa sfruttando la leva della sete di denaro.