Costantino della Gherardesca: “Credo in Barbara d’Urso e in una TV che ci liberi dal moralismo”
A volte si commette l'errore di giudicare la televisione in base ai titoli dei programmi, ai format, ai contenitori, trascurando i contenuti. Se c'è uno che negli ultimi anni ha saputo imporre visione e linguaggio indipendentemente dalla variegata lista di programmi che ha presentato, quello è Costantino della Gherardesca. Eclettico, a suo modo imprevedibile, passa con agilità dalla prima alla seconda serata, dal daytime al primo pomeriggio, dall'adventure game al quiz. In questa estate pandemica, a conferma delle sue tante sfumature, oscilla tra un ruolo in The Royal – Vizi e Virtù su Sky Uno, il ritorno alla conduzione di Resta a casa e vinci (Rai2, dal lunedì al venerdì, alle 14:00) e l'uscita di un libro intitolato La religione del lusso, in cui dà una fisionomia precisa alla sua recente battaglia per la santificazione di Barbara d'Urso, in netta controtendenza al pensiero diffuso che la vorrebbe crocifissa.
Costantino, i territori televisivi che hai esplorato fino ad ora sono quelli a te più congeniali, o ti stai ancora adattando in attesa di fare quello vuoi fare davvero?
L'adattamento fa parte della performance. Io cerco di applicare ad ogni programma la mia filosofia di comunicazione e la mia visione del mondo. Posso farlo da uno studio così come da un'isola delle Filippine.
Sia tramite un quiz del primo pomeriggio di Rai2 che attraverso un reality.
Io penso che Pechino Express, il programma a cui tengo di più, sia molto congeniale al mio pensiero perché in un certo senso cosmopolita: apre una finestra sul resto del mondo in un ambiente mediatico, quello italiano, che questa finestra la tiene sempre chiusa. Non parlo solo di intrattenimento, ma soprattutto di informazione, negli spazi di approfondimento di politica estera si parla molto poco di ciò che c'è fuori dall'Italia, molto si riduce a gossip della politica nazionale.
C'è stato un tempo, forse è ancora quel tempo, in cui eri visto come parte di una nuova generazione che puntasse a scardinare i linguaggi della Tv. È ancora così?
Assolutamente sì, bisogna cambiare e innovare. Ci sono meccanismi incancreniti nella Tv, ma per capirli credo sia necessario osservare tutta la sfera pubblica italiana a 360 gradi. Il ragazzo che per aprire una pizzeria deve passare attraverso un'infinita trafila burocratica è in parte vittima della stessa malattia di cui soffre la televisione.
Nel tuo libro, Le Religione del Lusso, imputi all'Italia di essere contagiata da un moralismo imperante. Non trovi che proprio quella Tv di cui vivi sia di questo moralismo il principale vettore?
No. Penso, anzi, che la Tv molto spesso cerchi, seppur timidamente, di uscire dal seminato, il più delle volte ritrovandosi a fare i conti con le reazioni di pubblico e politica.
Il moralismo, insomma, è negli occhi di chi guarda e chi "decide" la televisione?
Racconto un aneddoto secondo me indicativo. Anni fa alla BBC un dirigente mandò in onda uno spettacolo di avanguardia teatrale che si chiamava "Jerry Springer The Opera". Si trattava di un'opera di lirica contemporanea in cui il personaggio di Gesù Cristo era interpretato da un uomo nero con il pannolone. Molte furono le proteste, si opposero le associazioni e, nonostante ciò, il direttore della BBC disse di non essere interessato alle polemiche: "Questa è arte, innovazione – disse – e questo programma va in onda". Secondo me abbiamo bisogno di un maggiore coraggio da parte di chi realmente sceglie cosa possa o non possa andare in onda.
Quindi tu credi nell'idea di una televisione che può essere strumento di liberazione del costume?
Sì, ci credo nella misura in cui può dare appoggio alla liberazione, che è di per sé un processo individuale. Se l'individuo ha delle informazioni interessanti e vede degli orizzonti nuovi che si aprono anche nella programmazione televisiva, può essere aiutato nel suo processo di riscatto. È un'idea molto antica di televisione, non di dieci ma di quarant'anni fa, quando la televisione era in un certo senso meno democratica e in mano ad una élite culturale.
Televisione meno democratica?
Sì, la televisione dovrebbe essere meno democratica e populista, più elitaria e avanguardista.
Nel libro parli anche di un'Italia devastata dal culto della bruttezza e della continenza, dall'esaltazione della povertà.
Ne sono convinto e penso non ci porti da nessuna parte. È un approccio radicalmente diverso da quello che caratterizzava l'Italia di Fellini, della Dolce Vita, dei film di Visconti, della sperimentazione di Pasolini. Il coraggio, che oggi è venuto a mancare, è anche quello del dispendio di risorse.
Il culto della povertà è tra i principi base di un movimento politico oggi al governo. Ma precisamente cosa c'è di così virtuoso nel dispendio?
I film sopracitati erano estremamente lussuosi, costavano tantissimo. Molti di quelli che oggi consideriamo capolavori della storia del cinema italiano, all'epoca persero soldi al botteghino. Gianni Boncompagni diceva ironicamente una cosa molto semplice, ma geniale: la televisione si fa con i soldi.
Di recente sostieni il culto di Barbara d'Urso, la descrivi come una vittima sacrificale. Credi davvero che la sua televisione sia inattaccabile?
No, assolutamente. È attaccabile come lo sono tutti i programmi, compresi i miei. La sua TV viene fatta molto velocemente, possono esserci errori di scaletta e simili, penso tuttavia che sia stato fatto di Barbara d'Urso un capro espiatorio di tutte le colpe della televisione. La difendo in segno di sfregio verso altri programmi.
Quali?
Per esempio quei programmi di un cosiddetto giornalismo televisivo in cui, tramite false equivalenze, quando si parlava di diritti civili, si mettono sullo stesso piano Matteo Salvini e il professor Galbimberti. È un gioco bieco quello di equiparare un antivaccinista con un vaccinista, un terrapiattista con un astrofisico. Tutto ciò ha legittimato il populismo in programmi come quello della D'Urso che in fin dei conti sono innocui, perché non riconosciuti come programmi di informazione.
Denunci l'uso (abuso) errato della parola trash per definire certa Tv come quella di Barbara d'Urso. Ma se non è trash lei, cosa lo è in televisione?
Gli accadimenti trash avvengono anche da Barbara d'Urso, ma quando vedo in un programma di presunta informazione raccontare la storia della famiglia rom che vive in un bosco e si rifiuta di mandare i suoi figli a scuola, ritengo che il trash vero sia quello.
Quindi secondo te il trash televisivo è il cosa si dice, non il come lo si dice?
Il problema è quando quelli riconosciuti come programmi di informazione propongono false equivalenze. È meno grave il Prati-gate, rispetto al programma giornalistico che legittima il pensiero xenofobo, facendo da megafono ad un mondo al quale sono contrario non solo da un punto di vista etico – sarebbe troppo facile – ma anche da un punto di vista economico.
D'altronde il vento di destra, in televisione, prolifera anche per la mancanza di personaggi autorevoli e forti di segno politico opposto.
Sono assolutamente d'accordo, in TV oggi mancano figure progressiste di rilievo.
In definitiva, perché fai televisione e, soprattutto, per chi la fai?
La faccio per l'ampio pubblico e per la sfera pubblica. Credo che il pubblico non vada sottovalutato e che sia capace di cogliere molte sfumature di cui gli autori e gli editori televisivi spesso non si rendono conto. Questa capacità degli spettatori di recepire i segnali viene spesso sottovalutata.
Mi sarei aspettato che mi rispondessi "la faccio per soldi".
Ma certo, anche quello! Se uno fa televisione non sta facendo poesia persiana, si fa per soldi e deve far parte dell'economia di mercato.
Toccherebbe spiegarlo a chi spinge per il tetto agli stipendi Rai…
Sfortunatamente non capiscono molto bene come funzioni il mercato.