Boris Giuliano: il poliziotto dal volto umano
Ricky Tognazzi dosa con maestria gli ingredienti della fiction confezionando un prodotto che, pur dovendo rientrare nei canoni stilistici del committente Rai, si differenza dalla produzione dell’ultimo biennio per qualità e coerenza narrativa. Anche il montaggio di alcune immagini evocative (la pipa del procuratore Scaglione, caduta sull’asfalto, che lentamente si spegne come la vita del giudice) ci porta all’interno di uno storytelling televisivo pensato come alter ego cinematografico e offerto a un pubblico non selezionato ma sensibile ai racconti di mafia.
Il mestiere di Tognazzi è quello di chi si è formato come cineasta alla fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta attraversando, anche narrativamente, la zona del lutto pubblico e del senso di colpa nazionale prodotto dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio che, insieme a Tangentopoli, sono gli eventi topici della crisi italiana di fine Novecento (interessante, da questo punto di vista è il cortocircuito fictionale innescato: il ruolo di Bruno Contrada è assegnato ad Antonio Gerardi, l’attore che ha personificato il giudice Di Pietro nella serie Sky 1992). Un contesto che lo aveva spinto a scrivere una sceneggiatura controversa e dai risvolti polemici come La Scorta.
Un’esperienza non dimenticata che ritorna in superfice attraverso la composizione di un cast di attori comprimari divenuti vere e proprie icone dei mafia movies. Alcuni esempi: a Tony Sperandeo affida lo stesso ruolo ricoperto nei Cento passi (Tano Badalamenti); a Enrico Lo Verso, tra i protagonisti de La scorta, quello di Leonardo Vitale; a Luigi Maria Burruano, passato alla storia come il padre mafioso di Peppino Impastato, la figura del commercialista Buttafuoco; ai ragazzi di Mery la parte dei mafiosi. Insomma il telespettatore, pur assistendo in prima visione alla vicenda biografica di Boris Giuliano, si ritrova in un mondo riconoscibile che richiama e celebra il patrimonio immaginario (cinetelevisivo) sedimentatosi intorno ai racconti di Cosa nostra e dei suoi antagonisti.
Oltre le immagini ci sono i dialoghi. È qui che si concentra parte della missione pedagogica della miniserie. Alcune frasi topiche sono inserite all’interno della trama come delle epigrafi che segnano un percorso: «Stanno distruggendo la nostra identità» (Pietro Scaglione); «La libertà è un istinto, il potere è una mania» (Mauro De Mauro); «Il coraggio della verità non può essere pagato con la vita» (Mario Francese); «Mi piace chi non riesce a rassegnarsi» (Pietro Scaglione); «La prego non smetta di voler cambiare questo paese, lo faccia per i nostri figli, se glielo permetteranno» (Elda De Mauro); «Non sarà finita finché ci saranno uomini disposti a non abbassare la testa» (Pietro Scaglione); «La vita del poliziotto è fatta di sacrifici e rinunce» (Boris Giuliano); «Per loro (riferendosi ai poliziotti della squadra mobile) sei d’ispirazione» (Bruno Contrada).
Giuliano è presentato come un funzionario di polizia moderno, all’americana. Conosce l’inglese, si è formato alla Fbi, costruisce una squadra di funzionari specializzati, applica criteri innovativi d’indagine (segue gli spostamenti del denaro), comprende la transnazionalità del mercato della droga e del ruolo strategico che gioca la Cupola mafiosa nel traffico di stupefacenti (quello è il momento di massimo splendore di Cosa nostra che è in grado di produrre e distribuire in proprio grandi quantità di eroina). Soprattutto comprende che la polvere bianca consente guadagni stratosferici in poco tempo provocando un alterazione delle forze in campo attraverso il riciclaggio dei capitali favoriti da finanzieri come Sindona (con un accenno alla collaborazione con Giorgio Ambrosoli).
Allo stesso tempo l’azione modernizzatrice degli strumenti d’indagine non è scollegata da una lunga storia di arguta investigazione degli apparati statali contrapposti al potere mafioso. L’arrivo di Giuliano prende le mosse dalle informazioni raccolte dal maresciallo Corrao (deceduto nella strage di Ciaculli) che è presentato, a sua volta, come un innovatore avendo cominciato a tracciare una “geografia dei clan” con la schedatura di boss e affiliati (prima sconosciuti). Dunque il lavoro di Giuliano è il naturale sviluppo di un modello investigativo antimafia già presente (seppure in maniera minoritaria) all’interno delle forze di polizia.
Il procuratore Scaglione rappresenta, invece, il prototipo del magistrato antimafia che si dibatte in un ambiente ostile sapendo quando è «il momento di ritirarsi» e quando è «il momento di tornare all’attacco». Dal punto di vista professionale sembra una figura paterna, come tende a sottolineare non solo la stima incondizionata di Giuliano ma anche la passione comune per la pipa.
C’è poi il capitolo relativo alla sparizione di De Mauro in cui si prova a ricostruire tutta la vicenda collegata a Mister X che nel film è l’avvocato Battaglia, alias Vito Guarrasi. Indiziato per la scomparsa del giornalista, l’indagine sul suo conto svela che in meno di vent’anni ha ricoperto il ruolo di presidente, consigliere di amministrazione, revisore dei conti e/o azionista di almeno 26 società, pubbliche e private, con interessi ramificati nel settore minerario/estrattivo, edilizio, immobiliare, agricolo, turistico, farmaceutico, assicurativo, bancario, editoriale e sportivo. Il Partito comunista nella relazione di minoranza del ’76 si affretta a difenderlo definendolo «un tipico professionista abituato a rendere i suoi servizi ad alto livello tecnico e professionale… che ha reso servizi anche alle sinistre». Del resto, l’avvocato è stato anche consigliere d’amministrazione de «L’Ora», il giornale della sinistra palermitana, per il quale scriveva De Mauro.
Ma la fiction, per certi versi, rappresenta anche una riabilitazione del “superpoliziotto” Bruno Contrada. Il loro rapporto di amicizia e di lealtà è il fulcro dei successi di Giuliano e la base di partenza della progressione professionale. Contrada è stata un figura controversa, uno di quei personaggi da ancien regime che si muove sul filo della ragion di Stato. Eppure, nei confronti di Giuliano si comporta correttamente sia come uomo, sia come collega. Anzi, il suo sostegno mette a riparo il commissario da una serie di pressioni dei poteri forti. Del resto, la sua ambiguità, secondo l’Autorità giudiziaria, comincia proprio quando lascia la squadra mobile di Palermo per approdare al Sisde, passando per la Criminalpol.
Giuliano attraversa tutta la fase della modernizzazione mafiosa della seconda metà del Novecento, incrociando i corleonesi che si stanno preparando a sostituire il potere della Cupola con un regime di dittatura militare. Un totalitarismo criminale che inverte, e piega alle sue logiche, persino i rapporti di collusione tra politica e mafia. Si deve dare atto, inoltre, ad Adriano Giannini di essere riuscito a riempire lo schermo. Fino a questo momento era il figlio di Giancarlo; da oggi, anche in virtù del registro televisivo, ha una sua caratura interpretativa. Tognazzi sfrutta molto la somiglianza col padre (grazie ai baffi) e lo ritrae spesso in primi piani in cui esalta i tratti somatici familiari; ma non guasta. Anzi sembra il passaggio di testimone: l’uomo che aveva interpretato Borsellino ritorna giovane e forte nelle vesti di Boris Giuliano.
Infine, il regista e gli sceneggiatori riescono, senza stancare e tenendo a bada la retorica, ad alternare la dimensione pubblica del commissario irreprensibile all’umanità di un «padre meraviglioso». Alcuni momenti di vita familiare, soprattutto la descrizione del rapporto con i figli, lo restituiscono al grande pubblico nazionale come un servitore dello Stato pronto a fare il suo dovere. Non un eroe ma un uomo innamorato della vita e per questo nettamente contro la mafia.