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Lenny Belardo, il Papa di Sorrentino è quello che serve ai cristiani per ritrovare Dio

Lenny Belardo è quello che serve davvero ai fedeli cristiani in questo momento. Severità, rigore e quel filino di cattiveria per risvegliare dal torpore una religione che, troppo spesso, finisce per essere seguita per inerzia.
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"Siete in grado di dimostrarmi che Dio non esiste?". Sono bastati due episodi di "The Young Pope" per lasciare – com'era ampiamente prevedibile – una scia di manifestazioni diverse, dall'enfasi estatica di quelli che si professano "sorrentiniani" fino alle opposte accuse di blasfemia, che Maurizio Turrioni ha lanciato da "Famiglia Cristiana". È ancora presto per tirare una linea e dire "bello" o "brutto", perché le serie tv ci insegnano, come fa un buon romanzo, che tutto quello che è messo al centro è sempre in discussione. Evoluzioni, suggestioni, circuiti che si aprono e che – se la sceneggiatura è onesta – poi si chiudono come un meccanismo perfetto. Questa è – a mio parere – la sfida più grande per Paolo Sorrentino, noto più per lasciare sottintesi che manifesti.

Discutere di "The Young Pope" dal punto di vista recitativo, intanto, è follia. Il Lenny Belardo di Jude Law è arrogante e spregiudicato, assieme tenero e disgraziato, è un insicuro travestito da dispotico che ha capito perfettamente con cosa e con chi ha a che fare. Dio, per adesso, è messo a parte, perché "The Young Pope" dopo due episodi tutto riesce a sembrare fuorché una serie che parla di Dio. Sono i rapporti di potere di chi professa per conto di Dio, mostrati in una goffaggine da Seconda Repubblica meravigliosamente incarnata dai cardinali di Sorrentino. Il cardinale Voiello di Silvio Orlando, qui al suo massimo, è un altro personaggio borderline che sembra essere scritto a perfezione: è un buono o è un cattivo? O è lui l'antagonista di Lenny Belardo o la storia è destinata a rovesciare bene e male su questo scacchiere?

Sorrentino muove le pedine in un campo sconfinato ed esteticamente magnifico, come ci ha abituato. Gioca con alcuni dei suoi simboli e li fa corrispondere – dalla pallavolo dei preti al calcetto delle suore, dalla giraffa al canguro – e ancora lo farà negli otto episodi che ci restano. Tacciare il regista di blasfemia dopo appena 120 minuti di girato è un peccato di presunzione. Equivale ad ignorare la rivoluzione che la serialità televisiva ha innescato nell'ultimo decennio, portando le firme storiche del cinema a misurarsi con il mezzo e a ritenerlo finalmente adeguato – se non migliore – a raccontare un certo tipo di storie.

Se poi vogliamo proprio parlare di Fede e di Dio, forse Lenny Belardo è quello che servirebbe davvero ai fedeli cristiani in questo momento. Severità, rigore e quel filino di cattiveria per risvegliare dal torpore una religione che, troppo spesso, finisce per essere seguita per inerzia. La rivoluzione, in pratica. "Dio esiste. E non si occupa di noi finché noi non ci occuperemo di lui, esclusivamente di lui. Non c'è posto per l'emancipazione" – dice Lenny Belardo. Un Dio che tuona, invece di contare i follower su Twitter.

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