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Gomorra 2: «La fine del giorno è tutta qua»

Malammore è la personificazione del rapporto tra l’affiliato e il boss: un rapporto di devozione, di assoluto assoggettamento, intessuto di una forte idealizzazione. Pietro Savastano perde, invece, ogni tratto di umanità a causa della duplice esposizione al sentimento di vendetta e alla necessità di manifestare il potere economico.
A cura di Marcello Ravveduto
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Malammore è l’angelo vendicatore delle ultime due puntate. La sua abnegazione al capo lo ha reso un mostro agli occhi del pubblico. L’attore è stato minacciato da alcuni telespettatori per la gravità delle azioni compiute dal personaggio. Un transfert tra realtà e finzione che lo ha costretto a registrare un messaggio con il quale cerca di mettere distanza tra l’uomo e l’attore.

Una necessità ribadita anche da altri protagonisti. Per esempio Cristina Donadio, partecipando alla trasmissione di una Tv regionale alla domanda della giornalista, «ci sono lati positivi nel personaggio di Scianel?», risponde con nettezza: «Non ci sono lati positivi né in lei, né in nessun personaggio. Sono tutti egualmente rappresentanti del male senza possibilità di redenzione». Sicuramente bisogna esprimere solidarietà a Fabio De Caro, ma le minacce non mi meravigliano. L’attore napoletano dovrebbe sapere che quando la rappresentazione del male raggiunge la fasce popolari prossime all’ambiente camorrista si è sempre determinato un fraintendimento nella ricezione della messa in scena drammaturgica.

Nella sceneggiata il cortocircuito tra realtà e finzione era uno degli stilemi del genere teatrale. I conflitti personali e sociali recitati scatenavano il coinvolgimento emotivo del pubblico, appartenente allo stesso milieu raccontato, al punto da intervenire direttamente interrompendo la messa in scena sia con commenti verbali, sia fisicamente con l’irruzione sul palco nel tentativo di punire ‘O malamente (non a caso Malammore ha la stessa radice di malamente) che aveva trasgredito tutte le regole morali, persino quelle consuetudinarie attribuibili all’uomo di d’onore.

In fondo il personaggio non fa altro che replicare l’atteggiamento tipico del gregario: rinuncia alla sua individualità etica identificandosi con il volere del capo, in un patto di appartenenza perpetua alla legge del clan. Malammore è la personificazione del rapporto tra l’affiliato e il boss: un rapporto di devozione, di assoluto assoggettamento, intessuto di una forte idealizzazione. Un rapporto che, spesso, nasce da un debito nei confronti di quella persona; un debito speciale ché riguarda la propria incolumità, un obbligo legato alla salvezza della propria vita.

Il capo è oggetto di una sublimazione che annulla l’autonomia decisionale del subordinato, una limitazione che non solo riguarda l’agibilità materiale ma anche l’autonomia di pensiero. La verità del boss è un assioma assoluto, indiscutibile. È lui che detta il codice di comportamento e impartisce i comandi da eseguire. Anche i delitti più efferati possono essere messi in atto nel rispetto del comando ricevuto che sottintende la rinuncia alla compassione e alla comprensione umana. Del resto, la crudeltà esercitata è diretta emanazione del capo, si è sollevati da ogni responsabilità e si può allontanare da sé anche l’eventualità di vivere un conflitto psicologico; si realizza quello che è stato definito «crimine dell’obbedienza».

Ma è proprio l’obbedienza degli affiliati a depotenziare il carisma di Pietro Savastano. Il boss perde ogni tratto di umanità a causa della duplice esposizione al sentimento di vendetta e alla necessità di manifestare il potere economico. Infatti, nella veste di manager criminale ristruttura rapidamente il modello organizzativo della vendita mutando il sistema di distribuzione della droga: dallo spaccio in strada alla consegna a domicilio, organizzando un vero e proprio call center da contattare per la prenotazione e il ritiro della merce. Il principio di fondo è elementare: l’offerta si sposta verso la domanda. Il boss così sintetizza l’innovazione: «Non aspettiamo che vengano da noi, la portiamo noi a loro… è la domanda che fa il mercato e per la droga la domanda non manca mai». Nella scena successiva, infatti, gli uomini del clan contano mazzette di 50 e 20 euro e il contabile può dire con soddisfazione che grazie all’idea di don Pietro le cose stanno tornando come un tempo: in una sola settimana hanno guadagnato 835mila euro.

Al termine della seconda serie comprendiamo il significato dell’odio che si manifesta trasversalmente, dentro lo stesso clan e nei confronti degli altri clan, attraverso la selezione dei nemici da sopprimere. La violenza è il correlato concreto dell’odio in forma di esibizione pubblica. La morte è parte integrante dalla teatralizzazione della vita relazionale e sociale dei camorristi. La messa in scena della violenza serve, perciò, a trasmettere un messaggio nitido per la sua crudeltà. Un messaggio che acquisisce tanta più forza quanto più è atroce l’azione compiuta. L’omicidio è di per sé un veicolo di comunicazione che indica il grado di saturazione a cui è arrivato l’odio verso il nemico.

La fine della seconda stagione conclude la successione narrativa della prima. Molti personaggi sono stati eliminati, presupponendo nuovi ingressi e nuove storie. Si intuisce, però, che Jenny sarà il fulcro della terza serie perché nelle sue mani si rinnova il ciclo del vita, con un’esplicita sottolineatura narrativa il cui significato manifesto è: alla camorra non c’è mai fine.

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