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Bye bye mon amour, la morte di Salvatore Conte

Dopo aver ripresentato al pubblico Ciro e i due Savastano (Pietro e Jenny), la storia si concentra su Salvatore Conte che, fino a questo momento, era parso marginale rispetto al nuovo contesto narrativo.
A cura di Marcello Ravveduto
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Dopo aver ripresentato al pubblico Ciro e i due Savastano (Pietro e Jenny), la storia si concentra su Salvatore Conte che, fino a questo momento, era parso marginale rispetto al nuovo contesto narrativo. Il boss delle “due fritture” è il personaggio più complicato dal punto di vista psicologico, per questo il terzo episodio merita un doveroso approfondimento. Salvatore è immerso nell’universo simbolico della devozione popolare. La madre, verso cui manifesta un amore viscerale ai limiti dell’edipico (quando le dice: «Tu sei l’unica donna della vita mia»), è il fulcro della sua integrità religiosa. Affermazione che arriva in stretta sequenza con l’immagine di una statua della Madonna che il “buon figliolo” ha fatto arrivare apposta dal Sud America.

Il suo cattolicesimo è una forma di manierismo subculturale, sottolineato dall’arredamento barocco della casa che ruota intorno ad un inginocchiatoio posto ai piedi di un quadro caravaggesco con il Cristo in Croce. Una spiritualità iconica affollata da manufatti sacri che, all’occorrenza, si trasformano in contenitori per il trasporto della droga.

Anche il rapporto con l’istituzione ecclesiale, formalmente corretto, è piegato alla logica della strategia di controllo dei clan che acquistano all’ingrosso la sua merce. Anzi la scena in cui il parroco, ossequioso, chiede a don Salvatore di spostare la piazza di spaccio dallo spazio antistante la chiesa, è lo stravolgimento della retorica dell’antimafia: Conte suggerisce al sacerdote di organizzare una manifestazione contro la droga in modo da attirare l’attenzione dell’opinione pubblica. Gli sceneggiatori puntano sull’esaltazione di una caratteristica peculiare della camorra: la costruzione di un tessuto relazionale di prossimità con i diversi poteri territoriali per stabilire un canale di comunicazione comunitario, utilizzando ai propri scopi sia i messaggi della propaganda, sia quelli della contropropaganda. La fiaccolata del prete sarà sfruttata per dare una lezione ai camorristi con cui ha stretto alleanza che non stanno producendo i guadagni preventivati; ovvero si comporta come un direttore commerciale che ammonisce i dirigenti dell’ufficio vendite inadeguati a raggiungere gli obbiettivi di crescita aziendale prefissati.

Non a caso, di fronte ai capi clan riuniti, usa i toni del manager industriale: «Siete liberi: libero arbitrio, libero mercato. Questo è il capitalismo». Gli altri ammutoliscono ma sono già pronti a scatenare una guerra per spezzare il monopolio commerciale di Conte. In definitiva tutto si muove intorno all’economia e alle regole imposte dal mercato, anche se illegale. Ma c’è un altro aspetto che emerge con la sequenza del parroco, ed è inquietante. Si mostra, senza neanche troppi giri di parole, una situazione limite: fino a che punto la cosiddetta anticamorra può essere influenzata dalla camorra? Il parroco, che poi vedremo intervistato dalla Tv per l’audace corteo, mostra di avere coraggio perché ha avuto l’approvazione ad agire da don Salvatore.

Significa, quindi, che nel contesto urbano raccontato l’anticamorra può diventare l’altra faccia della camorra. Ci sarebbe da domandarsi se Saviano, che coordina con Sollima la squadra di sceneggiatori, abbia inserito volutamente un simile frangente per mandare un messaggio a qualcuno, o se sia solo il frutto di una pericolosa fantasia. Salvatore Conte, dunque, è un personaggio chiuso in una bolla, condizionato dall’immagine esteriore che di sé vuol dare (l’episodio raggiunge il culmine con la processione in cui si esalta il sacrificio della volontà), intrappolato nella resistenza ad ogni forma di tentazione, come se fosse in continua lotta con il suo alter ego diabolico. Non può trasgredire dalla linea di condotta, altrimenti metterebbe in crisi la leadership conquistata sulla scia dell’integralismo criminale. Ma il cuore lo tradisce. S’innamora e infrange la campana di vetro che lo protegge.

Un amore difficile, nascosto e impossibile per un boss di camorra, per giunta cattolico fervente. Appena può corre da Nina, ma Nina è una transessuale, nu femminiello. La copre di regali, la venera, ma non può farsi vedere in giro con lei (né concedersi un rapporto sessuale); così, per poter frequentare liberamente la sua “donna”, finge di essere fidanzato con la sorella.

Nina è una cantante neomelodica. Chiaro è il riferimento a Valentina Ok, la cantante transessuale – deceduta nel settembre del 2014 – che narrava gli amori impossibili nati nella “diversità”. L’amore per il “diverso” è la molla che lo spinge a commettere l’errore da tutti atteso per incastrarlo. Nina si presenta alla festa di compleanno di Salvatore (che è accompagnato ufficialmente dalla falsa fidanzata) per dedicargli una canzone d’amore davanti a tutti, ma in incognito. A questo punto si scatena l’omofobia di uno dei suoi uomini che l’offende fino a farla fuggire via. Conte rimane impassibile ma prima del taglio della torta usa il coltello per trapassare, da parte a parte, la mano sinistra dello scherano. La sua proverbiale albagia criminale si frantuma in mille pezzi.

Qui entra in gioco il Ciro/Iago della prima serie. Mellifluamente si avvicina all’uomo che Conte ha punito fisicamente ed economicamente (togliendogli la piazza di spaccio) e lo tira, insieme al suo compare esperto raffinatore di cocaina, dalla sua parte. L’eloquio è quello del tribuno plebeo. Per convincere i due, racconta di aver scatenato la guerra al solo scopo di far cessare la dittatura dei Savastano e di realizzare “un regime criminale democratico”, ma, purtroppo, Conte si è solo sostituito a don Pietro instaurando un’altra dittatura. E dice: «Volete essere schiavi a vita o uomini liberi»; una frase che in un altro contesto avrebbe il sapore della sacrosanta ribellione ad un potere totalitario. Chi ha scritto questa parte della sceneggiatura avrà avuto in mente il Bruto shakespeariano e le tragedie dell’Alfieri, ma, dal mio punto di vista, ha messo in scena il paradigma ciclico degli schemi di scomposizione e ricomposizione della camorra: la “sindrome di Spartaco”.

Nei diversi periodi storici (soprattutto nei momenti di crisi generati dai salti organizzativi di una rapida modernizzazione) emerge tra le schiere camorriste uno Spartaco che assume il ruolo di capo degli emarginati dal benessere criminale. Schiavi dello sviluppo mafioso la cui vita non è valutata in base alla dignità umana ma in base al valore economico. Solo grazie ad una lotta sanguinaria questi possono aspirare alla libertà: ogni battaglia, ogni vittoria, ogni “romano” massacrato è un passo verso la costruzione di nuovo regime plurale.

Ciro si presenta al popolo degli “schiavi della camorra” con un liberatore. Un capo carismatico in grado di indicare un destino migliore ad una massa di capi e capetti senza identità incapaci di pensare ad un’organizzazione moderna, decentrata e indipendente dal notabilato criminale. Come in un film di spionaggio gli attori in campo organizzano il doppio e triplo gioco per attrarre Conte in trappola, facendogli credere che anche questa volta l’avrà vinta. Dopo la processione dei “battenti” lo attendono in quella chiesa dove l’episodio ha avuto inizio.

Sicuro del fatto suo sfoggia una metafora religiosa per annunciare la decapitazione di Ciro: la Madonna è l’unica che domina il serpente schiacciandolo sotto i piedi. I due traditori stanno al gioco: sembra arrivata la fine dell’Immortale (del resto gli Highlander muoiono solo con la decapitazione) ma l’ex guardaspalle con la mano ferita taglia la gola a Conte che muore gemendo in un lago di sangue.

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